“Viva la vida” di Edmond Baudoin
Recensione di “Viva la vida” di Edmond Baudoin.
Sono a Juárez: Me lo ripeto. Ciudad Juárez. Una città che inventa la mitologia di domani. Città che porta il nome di un liberatore, di fronte a un’altra che si chiama “il passaggio”, e i loro due nomi insieme fanno già un romanzo. In questa città, scambio ritratti con sogni, superfici di sogni. Dovrei poter dire ciò che vedo ogni volta, ciò che passa negli occhi, la volontà di esprimere un essenziale che non riesce a venire fuori. All’inizio dell’incontro c’è la sorpresa di trovarsi davanti due stranieri venuti qui per donare loro un’immagine di se stessi, spesso mal tradotta, in cambio di qualche parola, di una frase che dica tutta una vita.
Sono due gli autori di questo grande fumetto, che è documentazione, tentativo di spiegare e al tempo stesso annichilimento, sconcerto, senso di impotenza rispetto all’inesplicabile. Viva la vida racconta i sogni di Ciudad Juàrez, va a scovarli, a rintracciarli nel sottosuolo della disperazione, del ‘sufrimiento’.
Ma perché un graphic novel proprio su questo luogo? Quante storie sulla Storia si sono svolte a Ciudad Juàrez? Quando ancora si chiamava Paso del Norte, Ciudad Juàrez, città dello stato messicano del Chihuahua, fu il crogiolo della resistenza repubblicana contro l’impero di Massimiliano. Fu lì che don Benito Juàrez e Guillermo Prieto organizzarono una resistenza militare e politica che si sarebbe diffusa in ogni angolo della nazione, e passò di lì l’esercito di Santa Anna in rotta dopo aver perso la guerra del Texas; Juàrez fu la città preferita di Pancho Villa, quella del suo cuore, nonché la capitale del contrabbando di munizioni, la sede delle sue interviste folli con i giornalisti del Nord America. E fu ancora a Ciudad Juàrez che si riunirono gli Apache, i Cinesi, i Tedeschi, i migranti di tutte le migrazioni e ottanta anni dopo quel posto diventa la città-dormitorio di El Paso e il simbolo del cambiamento, ovvero il trampolino verso Nord, per migliaia di Centroamericani e Messicani. Ciudad Juàrez fu la prima città a cadere nel caos della guerra di Calderòn contro i narcos, ed è stata la città del terribile femminicidio, tuttora irrisolto, incomprensibile, disumano e bestiale. Collocata sulla riva del Rio Bravo, fiume che segna il confine tra Messico e Stati Uniti d’America, Juárez costituisce un crocevia di migrazioni e soste, ulteriormente fomentate dalla grande presenza delle maquilas, fabbriche a basso costo piazzate nel territorio messicano dai colossi industriali americani e canadesi. Si tratta di fabbriche il cui scopo è l’abbattimento dei costi e dove ovviamente tutto è ottenuto a discapito dei lavoratori ma soprattutto delle lavoratrici: nell’industria maquiladora vengono infatti sfruttate migliaia di giovani donne, che lavorano per cifre esigue spesso producendo prodotti di tecnologia avanzata. Molte tra le vittime dei numerosi femminicidi sono operaie delle maquilas, sequestrate durante il tragitto che avrebbe dovuto condurle in fabbrica. La loro è la storia della maggior parte dei migranti che giungono a Ciudad Juárez come luogo di passaggio, con la speranza di raggiungere gli USA, ma vi rimangono trovando lavoro nelle fabbriche succitate. Ciudad Juárez è l’esempio di una società i cui elementi permettono non solo l’esistenza di una forte ideologia misogina, ma anche la persistenza di una cultura della violenza che riguarda l’intera popolazione. Insomma è, il simbolo assoluto dell’orrore organizzato, dell’inefficacia dello Stato, della disperazione… E nonostante tutto questo è una città che miracolosamente rimane in piedi, metafora del meglio e del peggio del Messico. Coraggiosi e determinati i due disegnatori e narratori Edmond Baudoin e il suo amico Troubs a scegliere di attraversare questo inferno per descriverlo e raccontare l’indicibile chiedendo ai superstiti di raccontare i propri sogni, raccogliendo le loro briciole di speranza e desiderio. Il graphic novel che racchiude questo viaggio tra i dannati è un capolavoro in cui si mescolano dialoghi, immagini potenti, cronaca e analisi tra soggettività e oggettività. È un documento prezioso e disincantato, post-realista lo definisce Paco Ignacio Taibo II nella sua prefazione al testo. Non è un caso che non ci sia colore, se non sulla copertina che ritrae tanti volti di donne (vittime) e i loro sorrisi cristallizzati, i sorrisi che avrebbero potuto coltivare un futuro possibile e che invece sono stati spenti selvaggiamente e subito dimenticati. Ma il valore di questo graphic è proprio nella determinazione a non dimenticare, a soffermarsi sul senso del possibile , ed è così che i tratti neri provano allora a riempire gli spazi bianchi, quelli dell’omertà, del silenzio terrorizzato, della violenza fine a se stessa. Le tavole che si susseguono sono densissime di segni, a volte si trasformano in macchie, teschi, dolore cicatrizzato. Ne risulta un affresco estremamente interessante e ricco di storie, di amarezza e sguardi muti, capace di sintetizzare l’indicibile in una ultima e folgorante considerazione: È così fragile e così forte, una vita.
Viva la vida!