Vincenzo Cerami e la bottega del racconto
Patria Letteratura saluta il grande Vincenzo Cerami, “artigiano della parola”.
Vincenzo Cerami era un artigiano della parola, sapeva che per raccontare ci vuole tecnica ma anche sapienza e soprattutto cuore. Da buon capomastro della bottega del narrare, Cerami usava tutti gli attrezzi del mestiere per costruire le sue storie, per plasmare parole che divenivano canzoni, teatro, radio, cinema, spaziando dal gergo aulico a quello più popolare. Praticava talvolta, l’artigiano del narrare, una scrittura di servizio per le altre arti, che fosse il giusto sostegno per registi, attori, musicisti.
E allora, come tutti i grandi, si metteva in disparte, lasciava ai suoi interpreti il palcoscenico del mondo, come quando Benigni vinse l’Oscar per “La vita è bella” da lui sceneggiato.
Ne sapeva di arti e mestieri l’artigiano del narrare: aveva fatto il gag-man in America per un anno, aveva collaborato con Pasolini per la sceneggiatura del film “Teorema” e fatto l’assistente alla regia ai film di Totò. Si era persino iscritto alla facoltà di Fisica, ma poi la scrittura lo aveva completamente assorbito.
Da giovanissimo Cerami era stato a sua volta apprendista di bottega di un grande Maestro, Pier Paolo Pasolini, incontrato come professore di Lettere alle medie. E’ lì che capì di saper scrivere, perché quell’insegante non segnava in rosso gli errori di ortografia, quelli dovuti al romanesco che si parlava in borgata, ma si arrabbiava molto se i suoi alunni mettevano nero su bianco stereotipi, frasi fatte, opinioni di comodo. Scrivere dunque significava innanzitutto ragionare con la propria testa, e poi guardare il mondo da un’angolatura speciale, quella della poesia.
Da lì il mondo appariva ancora più dolorante, però attraverso la parola era possibile dare un nome, un volto, a quella sofferenza, e far diventare quell’ingiustizia un’exempla, una maschera del degrado della società contemporanea. E’ così che nacque il suo primo romanzo “Un borghese piccolo piccolo” (1976), ritratto spietato del clima violento degli anni di piombo in un’Italia già piduista: è la storia di un padre, quasi troppo dimidiato per essere borghese, che si lascia corrompere per ottenere per il figlio la promozione sociale, un posto fisso, la televisione, l’automobile. La letteratura importante si riconosce da questo: che è predittiva, anticipa i tempi che verranno. E allora in quel signor Giovanni, non piccolo borghese ma borghese piccolo, che accetta di fare favori ai potenti, di essere zimbellato da cialtroneschi e cinici massoni incappucciati, e che poi si trasformerà nel terribile aguzzino del rapinatore balordo che gli ha assassinato il figlio, c’è già un’Italia predisposta a creare mostri, a nascondere malaffare e orrore pur di non rinnegare i miti del successo.
Un “Borghese piccolo piccolo” è un romanzo paradigmatico non solo del Paese che verrà, ma anche di qualcosa su cui Cerami tornerà in altre sue opere, quasi dovesse dar conto di un’ossessione: il male sopito nel quotidiano, che cova nelle pieghe della banale normalità, e poi sobbolle e scoppia in ferocia. Usava una prosa lineare per indagare le parti più buie dell’animo umano: andava a cercare i demoni pronti a trasformare la realtà in un incubo di sangue. Come nei delitti efferati raccontati in “Fattacci” (1997). O nella disperata leggerezza dell’essere di “Fantasmi”(2001): quando lo lessi mi sembrò che l’autore volesse dar conto dei propri fantasmi, in primis quello di Pasolini. Glielo scrissi in una mail, e lui mi disse “brava”, ma poi si schermì: in un’altra mail dove io per sbaglio o per ingenuità gli mandai un allegato di faccine “smile” dell’epoca, mi rispose che non era il caso, che lui non si sentiva così gioioso.
Era un malinconico Cerami, ma di una malinconia addomesticata con l’ironia, ricondotta a melodramma arcadico come in “Amorosa presenza” (1978), o stemperata in poemetto narrativo come in “Addio Lenin” (1981). Perché la verità ultima è negata e l’aderenza al reale è faticosa, e “chi scrive deve dire una cosa per volta, per procedere per immagini e capitoli successivi, gli strumenti della sua bottega non gli permettono il colpo d’occhio generale, la veduta d’insieme”: disse così quando sperimentò anche il romanzo storico con “La lepre” (1988), storia ambientata nel Seicento di un amore disperato tra un medico di un lebbrosario e la misteriosa paziente Bianca Maria.
E poi c’erano le canzoni, Cerami amava scriverle e cantarle, perché la vita in fondo è una canzone, perché le canzoni volano sulle infelicità e le umane illusioni: ognuno cerca la Titina, chissà mai dove sarà, ma qualcuno la cercherà finchè la voce avrà voglia di cantar (“Canti di scena”).