Una Morgana contemporanea: Marisa Papa Ruggiero e il suo “Di volo e di lava”
Recensione della raccolta di Marisa Papa Ruggiero “Di volo e di lava”.
Di volo e di lava, la raccolta di poesia di Marisa Papa Ruggiero, immerge il lettore in una realtà fluttuante e impalpabile come un velo di seta. Verso dopo verso si compongono poesie che ricordano i sutra, le sentenze e le perle di saggezza di cui si compone la cultura e la filosofia orientale.
Non è necessario capirle, ma sentirle rimbombare nell’anima, come quel “silenzio che fa eco” con cui si apre l’antologia.
Queste poesie si pongono perfettamente nel filone della poesia femminile, la cui acuta sensibilità si leviga fino a diventare impalpabile grazie al suono delle parole scelte e le immagini ardite che evoca.
“Monile in vibrazione
In conche d’acqua e cristalli
Venate di squilibri
In questo sguardo riflesso in lava
Mai spenta […]”
Non si trovano persone in questi versi, forse si può avvertire un luogo, ma se c’è, è un luogo troppo avvolto dalla nebbia per avere una geometria precisa, per essere collocato nel mondo reale.
La voce di Maria Papa Ruggiero ci arriva come la voce di Morgana, attraverso le nebbie dall’irraggiungibile e mistico Avalon, ci parla per enigmi come la Sibilla Cumana e i suoi versi ci sono portati dal vento da un’oscurità imperscrutabile:
“[…] l’oscurità insondata
Che resta inconoscibile
Che non sai nominare
Che non sai nominare
Si misura in millenni”.
Se l’autrice deriva da una tradizione di poetica femminile, nel leggere le sue poesie si scorge una certa somiglianza con la poetica ungarettiana: l’assenza di punteggiatura e di metrica, la spezzatura dei versi e l’enfasi che cade su determinate parole invece che su altre, ma soprattutto la suddetta oscurità dei versi, non può non ricordare il padre dell’ermetismo. Come Ungaretti, Ruggero sa bilanciare leggerezza, oscurità e drammaticità, ma anche una liricità lacerata da qualcosa che non ha un nome, ma che si percepisce come un dolore latitante da qualche parte, nascosto tra un verso e l’altro. Il dolore di Ungaretti aveva un nome, era ben identificabile: era la guerra, trauma impossibile da superare, che conduce alla follia, ma che nel poeta si è tramutato in poesia. In Maria Papa Ruggero perde ogni perimetro, si fonde e si confonde.
“[…] se con il corpo
Circondi i suoi confini
Non ne cingi i confini
Ne fai parte […]”
Leggerle è come addentrarsi in un labirinto di suggestioni fuggevoli composte da quegli opposti che compongono l’esistenza: presenze-assenze, vita-morte, voci-silenzio.
In questo labirinto, in cui non si sa se il Minotauro ci potrà distruggerci o innalzarci, il filo d’Arianna sono i salvifici versi che l’autrice fa cadere ogni tanto nelle sue poesie con precisione strategica e che si rivelano essere di poetesse del Novecento, di cui l’autrice è degna erede.