«Un ragionevole uso dell’irragionevole» di Flannery O’Connor
Recensione di «Un ragionevole uso dell’irragionevole» (Minimum Fax, 2019) di Flannery O’Connor.
Per Flannery O’Connor la verità di una storia è imprescindibile e rivela la vera natura dell’arte: l’arte che è.
L’arte deve essere qualcosa, non fare qualcosa.
Nata a Savannah nel 1925, considerata fra le più grandi autrici statunitensi del ‘900, non amava certo definirsi una scrittrice del Sud, e a chi le muoveva questo limite rispondeva:
Io uso gli idiomi e i costumi del Sud, del paese che conosco, ma non ritengo di scrivere del Sud.
La visione della O’Connor andava, infatti, ben oltre i confini delle proprie origini, del proprio spazio (di una prospettiva relativa); occorre sempre andare verso l’assoluto, per cercare la verità.
Un’opera è il risultato di tutto il contenuto, spiegava durante una delle sue lezioni; e ciò risulta difficile da comprendere per il lettore medio, abituato a cogliere solo pochi aspetti di un libro, solo la superficie.
La O’Connor amava rivolgersi a quei lettori “più alti”, a coloro che avrebbero letto senza pregiudizio le sue opere, così come tutte le opere letterarie dovrebbero essere affrontate.
La profondità, si sa, è rara.
Pubblicato da Minimum Fax, “Un ragionevole uso dell’irragionevole” raccoglie in un solo volume Nel territorio del diavolo e Sola a presidiare la fortezza, lettere e saggi della O’Connor sulla scrittura, sulla forza creativa, sulla teoria letteraria, sulla difficile arte dello scrivere e di rivolgersi al pubblico.
A parer mio quasi tutti sanno cos’è una storia, fino a che non si siedono a scriverne una.
Fervente cattolica, la scrittrice usa gli elementi della sua vita e dei suoi paesaggi per le storie che racconta, introduce il dettaglio anche più piccolo, per rendere viva la realtà delle pagine. Ce ne dà un esempio straordinario, parlando proprio della natura e dello scopo della narrativa:
Non c’è frase di Madame Bovary che, esaminata, non desti meraviglia, ma ce n’è una in particolare davanti alla quale mi fermo ammirata. Flaubert ci ha appena mostrato Emma al piano, con Charles che la guarda. Dice: <<Batteva sui tasti con disinvoltura percorrendo senza posa la tastiera, da un’estremità all’altra. Così scosso, il vecchio strumento, con le corde che vibravano, si faceva sentire fino in fondo al paese quando la finestra era aperta, e spesso lo scrivano del balivo, passando per la via principale, a capo scoperto e in pantofole di pezza, si fermava in ascolto, il foglio di carta fra le mani>>.
Possiamo vedere, dunque, possiamo toccare con mano i personaggi descritti. Quelle pantofole di pezza, dettaglio sul quale la O’Connor si sofferma, rappresentano la grandezza visiva di un vero scrittore, che vuole parlare di tutto ciò che è umano e che fa parte dell’umano.
Mai disdegnare la polvere, dice la scrittrice. Noi siamo fatti di polvere e in essa risiedono la nostra libertà, la nostra forza… il nostro mistero.
Quel mistero che nessuna formula umana può liquidare, prosegue la O’Connor. Mistero che è alla base delle leggi della narrativa. Mistero verso cui tende lo scrittore che segue il percorso del creare.