Un paese ci vuole: “Il sole e il sangue” di Domenico Talia
Recensione di “Il sole e il sangue” (Ensemble, 2014) di Domenico Talia.
I racconti de “Il sole e il sangue” (Ensemble, 2014) si sviluppano per oltre 150 pagine, con stile piano e accattivante, e posseggono gusto, sensibilità e profondità riflessiva: tutto quello che debbono avere le vere opere letterarie. L’ambientazione, salvo un rapidissimo flash milanese, è tutta incentrata nella terra natale dell’Autore, che emerge a tutto tondo come maestosa, spesso tragica, ma pur sempre “un dono di Dio”, ed è vissuta da lui come particolarmente vicina ed attuale. A conferma del fatto che – come sosteneva Schopenhauer – se la lontananza rimpicciolisce gli oggetti all’occhio, li ingrandisce al cuore e al pensiero.
Domenico Talia avrebbe potuto intitolare in tanti altri modi questa raccolta. Anche perché alcuni termini presenti ne “Il Sole e il Sangue” (amore, mare, caldo, ritorno, estate, cielo, treno,azzurro, ecc.), parole chiave dell’intera narrazione, potrebbero benissimo figurare nel titolo. Tuttavia, in qualsiasi modo l’Autore o l’Editore avessero scelto di intitolarlo, esso sarebbe rimasto comunque essenzialmente un libro di viaggio. Un libro di viaggio (ma più nel tempo che nello spazio) ed anche – perché no? – un libro di amore e di rispetto per le radici, vissuti dall’Autore, certamente, con molta più intensità di quanto non lasci intendere la narrazione asciutta e pacata.
Il viaggio e l’amore di cui parlo sono incentrati e “riversati” dall’Autore sulla sua terra: sullo Jonio azzurro; sulle montagne e le fiumare d’Aspromonte; sulla Conca Glauca; sul paese dov’egli è nato, Sant’Agata del Bianco, lo stesso luogo (mai nominato nel testo) che ha dato i natali al grande Saverio Strati. E quella terra bellissima e “con il mare di fronte”, la Locride, è narrata nel libro non solo e non tanto come luogo fisico e reale, ma, soprattutto, come luogo”della memoria” e “dell’anima”. Specchio e metafora del proprio passato, delle proprie radici e della propria identità.
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti“.
Così scriveva Cesare Pavese nell’ultimo suo romanzo,“La luna e i falò”. Un testo in cui raccontava in prima persona la storia di un orfano, soprannominato Anguilla, tornato nel paese natio, dopo lunghi anni trascorsi oltreoceano, per trovare le proprie radici e capire la sua vera identità. Quel romanzo (che Pavese scrisse nel 1949, poco prima della sua scelta estrema) e l’intenso “viaggio” di Anguilla si fondano sul movimento del tempo e della memoria; un lavorio che ricerca e riconosce il passato per proiettarlo su un presente che va ancora capito e ricostruito. Mi sembra che il lavorio del tempo e della memoria sia il tratto distintivo anche del libro di Talia. Il vecchio protagonista de “L’innesto”, il racconto che dà l’avvio e l’imprinting a “Il sole e il sangue”, ricorda molto l’anziano Nuto che affianca Anguilla nel romanzo pavesiano. Una figura importante e portatrice di una sapienza antica, strettamente legata alle abitudini, alla cultura ed alla saggezza contadine.
Quell’antica saggezza – insieme al confronto/scontro con le proprie radici (la famiglia, la casa, il paese, la terra) e all’incessante alternarsi di fughe e ritorni, da/verso il “mondo esterno” – è presente, più o meno esplicitamente, in tutte le 17 novelle de “Il sole e il sangue”. Le quali – al di là dell’apparente disomogeneità ed “intercambiabilità”di dislocazione – hanno, a parer mio, molta più organicità e continuità di quanto non appaia ad una lettura superficiale. Sono tutte legate da un sottile ma tenace filo rosso che le connette ad un’unica, grande riflessione e metafora: quella sul senso della vita e dei luoghi, che l’Autore affronta e racconta nel registro a lui più congeniale, quello letterario, fornendo, tuttavia, ai lettori anche un apprezzabile apporto di tipo più prettamente storico e socio-antropologico.
Alla saggezza e alla cultura della vecchia “società agricola”, Talia dedica molte pagine dei suoi racconti, dimostrando di conoscerla e padroneggiarla “dal di dentro” (rivelatrice, ad esempio, la bella descrizione dell’“innesto a corona”). Ma la sua scrittura non è incline al folklore e al “passatismo nostalgico”; né i contenuti dei suoi racconti evitano di affrontare i tempi attuali per “rifugiarsi” in un’epoca mitizzata che ormai non c’è più. Anzi, si rimane sorpresi dall’estrema attualità delle situazioni narrate e denunciate (ricordo, ad esempio, la novella della “sposa ragazza”), che affrontano con realismo argomenti come lo sviluppo mancato (o storpiato); come la nuova ‘ndrangheta, divenuta anche una holding finanziaria internazionale (quasi inverosimile, ad esempio, il contenuto del racconto “I dolci a scuola”). Come il sempiterno e devastante intreccio politico-affaristico-mafioso. E, ancora, la realtà degli immigrati (i personaggi di Nabir e Mircea ne sono un esempio), che ormai fa parte integrante della vita dei paesi e delle campagne e che, a modo suo, riempie nel nostro Sud i vuoti demografici provocati dall’emigrazione.
Sebbene l’Autore non nasconda il suo pensiero e i suoi sentimenti, l’io narrante dei vari racconti de “Il sole e il sangue”(autore e “cucitore” delle varie storie) si presenta, volutamente, come un protagonista indefinito e dice poco di se stesso. È ricco di sensazioni e di ricordi precisi, ed al tempo stesso, appare come inafferrabile. Il lettore impara a conoscerlo attraverso i personaggi, i valori, gli entusiasmi e le amarezze (causate soprattutto dalla constatazione dell’indifferenza, dell’abbandono e del malaffare) dei vari personaggi. E capisce che vive in una continua dialettica interiore tra il prima (il paese, l’infanzia e l’adolescenza, col loro “diverso modo di sentire il tempo”), ed il dopo (la città, l’età adulta, la professione, il “mondo esterno”).
La terra natale è il nostro destino. Questo concetto sembra racchiudere in sé il contenuto di “Ritornando”, il racconto che Talia ha inserito per ultimo nel suo libro, quasi a voler suggellare un ricongiungimento tra il prima e il dopo: è alla terra che ci ha visti nascere che dovremmo tornare per conoscere noi stessi e per trovare in noi le ragioni del nostro essere, perché il futuro sta, tutto intero, “nel passato delle radici” e perché “i luoghi dove abbiamo vissuto ci entrano dentro silenziosamente e non ci lasciano mai”.
La Locride, in tal senso, è per Talia un luogo “magico” che unisce i tratti del paesaggio a quelli della memoria e del mito. Dalla sua narrazione – com’è tipico delle vere opere letterarie, dove il racconto trascende la storia, si fa metafora e parla il linguaggio universale dell’arte e dei simboli – quella terra (con la sua gente, i suoi grandi scrittori, i suoi paesaggi, la sua storia millenaria e le sue violenze spesso sanguinose: veri protagonisti di questi godibilissimi racconti), da spazio definito e geograficamente delimitato, diviene un luogo aperto e ideale. Quasi senza limiti e senza tempo. E questo è un ulteriore, non secondario, merito de “Il sole e il sangue”.