Un corpo nudo, in Parini: fra realtà e ideologia
Riflessioni di Mario Massimo sul corpo e sull’idea di esso nell’opera di Giuseppe Parini (spunto nato dalla lettura di “Piccola storia del corpo” di Paolo Di Paolo).
C’è nel Giorno del Parini un brano – assolutamente ignorato dall’abitudine selettiva delle antologie scolastiche, che si impigriscono a riproporre sempre gli stessi, ovvii due-tre brani, “Il risveglio del giovin signore” o “La vergine cuccia”, uguali di decennio in decennio – che avrebbe potuto ben figurare nella Piccola storia del corpo (Perrone, 2013), l’interessante carrellata letteraria di Paolo Di Paolo, già recensita su queste pagine: se non fosse che Di Paolo ha preferito concentrare la sua lucida e sensibile lente critica sugli scrittori del Novecento, e ancor meglio su quelli della fase conclusiva di esso, e fino alle soglie del “secol nòvo”.
Quelli di cui parliamo sono i versi 957-976 del Mattino, il primo, cronologicamente, dei poemetti in cui il “precettor d’amabil rito”, l’ironico Machiavelli brianzolo, addita al disprezzo dei lettori il suo nobile – da secoli, o anche da poco, di una nobiltà, da qualche generazione appena, compra – quanto rammollito dedicatario; e per farlo, simula (secondo il noto travisamento post-tridentino risalente al Boccalini, in cui il Fiorentino farebbe solo finta, di dar consigli al suo “principe”, ma in realtà starebbe svelando a noi lettori “di che lagrime grondi e di sangue” la conquista e la gestione del potere) di dargli qualche dritta su come riempire il suo vuoto tempo di giovinastro indegno della condizione di predominio in cui l’assurdo della storia lo ha, senza alcun suo merito, per pura forza genetica dei “magnanimi lombi”, come con sineddoche biblica vengono indicati gli apparati riproduttivi “de’ grand’avi” suoi, sbalestrato.
E in questi specifici versi, il consiglio è di dedicare qualche ora del suo tempo, occasionalmente, se non proprio quotidianamente, alla rasatura e al bagno. Vale la pena, per poter proseguire il nostro discorso, ma forse ancora di più per il piacere di guardare con altri occhi a un’opera che credevamo conosciuta, leggerli direttamente:
Tal giorno ancora, o d’ogni giorno forse
dên qualch’ore serbarsi al molle ferro
che il pelo, a te rigermogliante a pena,
d’in su la guancia miete, e par che invidii
ch’altri fuor che lui solo esplori e scopra
unqua il tuo sesso. Arroge a questi il giorno
che di lavacro universal convienti
bagnar le membra, per tua propria mano
o per altrui con odorose spugne
trascorrendo la cute. È ver che allora
d’esser mortal ti sembrerà; ma innalza
tu allor la mente, e de’ grand’avi tuoi
le imprese ti rimembra e gli ozii illustri
che infino a te per secoli cotanti
misti scesero al chiaro altero sangue,
e l’ubbioso pensier vedrai fuggirsi
lungi da te per l’aere rapito
sull’ale della Gloria alto volanti:
ed indi a poco sorgerai qual prima,
gran semideo che a sé solo somiglia.
Forse l’aspetto più vistoso di questo testo è la sua, voluta, sfacciata non-quotidianità lessicale, che a tratti sfiora il limite dell’indecifrabile; ironico contraltare esso stesso, nella spocchia del suo sublime stilum, della deplorevole, antieroica banalità del referente: un essere umano nell’atto di passarsi sulle guance il rasoio – travestito qui da “molle ferro” e che, da insensibile pezzo di metallo, si tramuta, umanizzandosi, in servitore intrigante, unico e geloso (“par che invidii / ch’altri fuor che lui solo esplori e scopra / unqua il tuo sesso”) custode di una intimità tinta di risvolti ambigui, pur sotto l’intento di stigmatizzare la prevalenza di uno Zeitgeist smascolinizzato – e poi steso nell’acqua di una tinozza da bagno.
Ed è qui, che si verifica l’evento traumatico: il “giovin signore”, abbassando lo sguardo sul proprio corpo nudo nell’acqua, ha l’impressione di essere assolutamente uguale a qualunque altro essere umano, e dunque, nella sua atterrita ottica semantica, “mortal”, non dio. Non-nobile, cioè.
Possiamo, a questo punto, misurare la reale forza espressiva di questo testo; pur con il rischio, è vero, di vederne smorzata la carica eversiva sotto il paludamento retorico, Parini è riuscito a conferire, a un elemento della più ovvia quotidianità come questa scena da stanza da bagno, il significato filosofico fondante della sua ideologia, che è poi quella del Secolo dei Lumi: la naturale egalité degli uomini, cui la Rivoluzione avrebbe dato, a distanza di un quarto di secolo, e fra il raccapriccio dello stesso poeta, e di quasi tutti gli intellettuali italiani dell’epoca, quella sanguinosa materializzazione che le signore milanesi alla moda mimeranno annodandosi al collo un nastro di color rosso, in modo da vestire alla ghigliottina.
Ma è solo un attimo: tornato a calcarsi sul viso la maschera del suo personaggio, Parini si affretta a suggerire al ragazzotto in angustie il giusto antidoto. Basta concentrarsi con la mente sulla sfilza secolare degli antentati, ed ecco che l’”ubbioso pensier”, l’assurda fisima di essere come tutti gli altri uomini, si dileguerà: il giovine rampollo si erge infine dalla sua tinozza – e lo rifarà il Don Fabrizio del Gattopardo assimilato da Tomasi all’Ercole Farnese, con un substrato ideologico su cui di recente ha fatto luce Salvatore Silvano Nigro, Il Principe fulvo (Sellerio, 2012) – come un semidio da un mitico bagno rigeneratore, pronto ad affrontare, “sull’ale della Gloria alto volanti”, le inutili e vacue occupazioni della sua folle journée di aristocratico, nella Milano ancora Ancien Régime.
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