"Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c'era" di Paolo Di Paolo

“Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c’era” di Paolo Di Paolo

Recensione di “Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c’era” (Rizzoli, 2014), l’ultimo libro di Paolo Di Paolo.

Si potrebbe dire che il nuovo libro di Paolo Di Paolo, Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c’era (Rizzoli, 2014) sia, in qualche misura, la ripresa e la prosecuzione di un suo libro precedente, Dove eravate tutti (come sembra voler dire anche, implicitamente, il sottotitolo, per via del non esserci: che pure è un dato oggettivo).

Lo è, s’intende, non nell’impianto di fiction – e del resto, la fortissima connotazione umana di Montanelli può aver liberato l’autore dalla necessità di costruirsene uno… -, ma proprio nella struttura, anche visiva, iconica, con le foto e i titoli di giornali alternati al testo, e poi, coerentemente, quando nel testo ci si entra, con il suo affermarsi sempre più nella direzione di una ricerca storica (quella che Erodoto, appunto, denomina historìe), certo, inizialmente, di Montanelli, ma poi via via che si prosegue nella lettura, nell’inchiesta, dell’Italia stessa. Di com’era, e com’è cambiata; della gente soprattutto, delle sue abitudini (il bianco d’uovo conservato in frigo…), dei suoi modi di pensare; dei modi di sbagliare, nella convivenza con i propri simili (il corteggiamento delle ragazze, al liceo; la maestra “dura e pura” che redarguisce il ragazzino per aver portato in classe il Giornale; Sofri e Calabresi figlio; le aggressioni verbali di Montanelli e a Montanelli); di fatto, l’obiettivo documentale/storico del protagonista di Dove eravate tutti: fin dall’episodio di apertura.

E poi, naturalmente, Montanelli: la “grande ombra” di Montanelli. Forse le cosa che meglio risulta dal libro – anche per via del suo essere, per così dire, “a quattro mani” con lui, a causa delle tante, ampie, o epigrammatiche, citazioni – è la qualità letteraria della scrittura di Montanelli stesso: la finezza dell’aggettivazione, l’inventività icastica con sui sbozzava facce, cose, atmosfere. Davvero, uno scrittore di altissima caratura. La qualità dello storico è ovviamente un po’ più “andante”: anche per sua scelta, e quasi si direbbe, ostentata posa, in alternativa ai “professoroni”: da, se si potesse dire, Berlusconi della storiografia. O da Renzi, magari: a questo aforisma di Montanelli sul termine toscanacci, che va pronunciato “su un tono compiaciuto di spavalda iattanza”, chi vi viene subito in mente…?

Ma, in un’accezione più profonda e diversa di storico, ciò che Montanelli ha significato: e qui – obiettivamente – Di Paolo ha il merito, anche per il suo “non esserci stato”, di aiutare noi che c’eravamo, e ci siamo comportati, chi più chi meno, come la maestra del figlio di Sergio, a riesaminarlo in maniera meno fegatosa (toscanaccia?), meno ideologizzata. Anche se fa presto ad insorgere il timore che questo distacco, da altrettanti Tacito sine ira et studio, sia in realtà la spia di quella “morte degli ideali” (o quanto meno, del loro forte appannarsi, nell’impatto con le cose e gli anni) che, in realtà, il libro  stesso, nelle sue parti più recenti, e in quelle più “antiche” per antifrasi, fa rilevare: col suo rattenuto, antiretorico stupore.

Insomma, un libro che si rivela, al solo lasciarsi affatturare, di pagina in pagina, dal suo civilissimo aprirsi al confronto e alla riflessione, anche su se stessi, tutt’altro che superfluo: è uno dei molti modi (un eccellente modo, per di più!) di sfatare l’abusato luogo comune degli scrittori italiani “ciechi e sordi” al loro tempo: per colui di cui parla, certo. Ma anche per il come ne parla, Di Paolo: con la sua cadenza elegante e lieve, il suo meditato rammemorarsi di homo sum, nihil humani a me alienum puto…

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