“Tumuli” di Josef Kostohryz
“Tumuli” è un inedito di Josef Kostohryz tradotto da Alberto Di Paola e Kateřina Zoufalová (pubblicato sulla rivista l’”Ozio”, 1990).
Tumuli di Josef Kostohryz
Forse non mi dovevo svegliare così all’improvviso,
ma essere come un frutto maturo è un bene.
Non ho mai indovinato questa somma di convenienze,
nemmeno questa crapula della dissipazione, sempre
e soltanto un malumore, come un bisbiglio in una corona di fiori.
Sarà triste anche l’occhio stesso di un bambino
quando nel vuoto marciranno le nuvole ventose,
la chiazza già s’offusca al primo arrossamento,
serpeggia il fumo là davanti fin dentro l’ignoto;
questo, oggi, è una via perduta, un ricordo.
Amico, domando soltanto con un piccolo sorriso
se ricorderai ancora i momenti inutili,
quando la rosa e i libri erano per noi una vertigine;
forgiavamo severamente un verso dopo l’altro,
li raccoglievamo dal sogno e dalle profondità della musica,
li misuravamo e cercavamo terribilmente il ritmo,
non conoscevamo altro ornamento poetico:
solo il desiderio e la sete, e l’agitazione delle promesse.
E domanderò con un piccolo sorriso amaro
se ancora ricorderai ogni tanto il tempo passato,
quando scrivevamo lettere artificiose:
ti scrivevo arroganti, appassionati panegirici,
così sapienti che oggi mi vergogno,
il mio sognare era senza freni;
ma, ahimè, quant’erano queste cadute, che tutte
das ist der Tod, der ist Musik geworden,
dovevo chiudere e tacere
gewaltig sehnend, süss und dunkelglühend,
nella solitudine della tristissima vacuità del cielo;
verwandt der tiefsten Schwermut;
non conoscevamo la misura nel male e nel bene.
E tu hai sempre respinto la rigida scienza,
la forma e il contenuto, il contenuto e la forma,
solo i versi componevi avidamente e hai voluto
raccontare a volo la scintilla e la cenere,
la sottile membrana e la speranza, la lagrima,
aut ne quis malus invidere possit.
Ero geloso di questa tua Nata dalla spuma,
brancolavo ingenuamente nell’Eterno, affogavo
in ciò che mai non muta e perdura,
non ero capace di accettare la ragazza nella leggerissima
seta del peccato… io ho accettato, e solo a voce alta
non ho confessato il tenero annebbiamento che m’ha dato.
Amico, dove sono queste bellezze, i profumi?
Qui ci sono soltanto nebulosi tumuli e amori…
ma dove sono quegli amori ch’erano così belli!
Lei era grigia e verde oro,
ma, sai, ricorda solo quando la incontrai
quella volta, e mai più:
che assurdità è il riconoscere e il sapere!
Amico, domando solo con un breve piccolo sorriso
se ricorderai le corde dei versi
quando cominciammo a tenderle e a strimpellare…
scrivemmo subito alle sorelle e alle mamme.
Hai amato Neruda, Zeyer, Hálek,
mi piaceva Březina, Erben, Mácha,
non mi piaceva nessuno e tutti,
come nella vita bevevo ogni cosa: dalle torbide
pozze alle acque cristalline e limpide,
ai fuochi, e per questo sono stato punito.
Sono ancora orgoglioso, e da tanto tempo sono caduto,
dov’è questo pugnale? Lo desidero, e ancora, là?
E ne avevamo a sciami di minuscoli amori,
sempre solo un sorso che all’improvviso si cangiò
in una nuova sete.
Amico, solo con un breve piccolo sorriso domando
se rammenti pure le corde della pioggia
quando una volta ho comprato Apollinaire?
Leggevamo insieme in fondo in via Venezia,
in quella piccola cucina della zia
con la vista sul cortile, dove un vecchio castagno
in quella primavera accese le candele del suo sbocciare;
sopra, di fronte, sedeva una ragazza
che la sera salutavo dalla finestra…
non l’ho più vista viva in un altro luogo.
La tête étoilée ci avvinghiò completamente,
voci femminili ovunque, ingenue e melanconiche,
come se lo stesso ricordo si dileguasse.
Ti ho dato pane e burro col tè,
ti ho voluto ospitare gloriosamente, amabilmente…
con noi c’era un poeta.
Con un breve, leggero e amaro sorriso, domanderò solo
se ancora hai nostalgia dei fiori dei versi
quando l’abate Bremond s’incantò all’improvviso
e nuda la mostrò agli occhi vogliosi
la fille de Minos et de Pasiphaë
vestita dei colori dei suoni.
Ah, Musa,
come mi sarebbe piaciuto giocare con te amorosamente
se si fosse levata in alto quella nuvola…
e non opprimeva il cuore.
E accadde quella volta,
quando su dalla piazza di Malá Strana
o attraverso un passaggio, giù, dai Neruda
miravo il misterioso fasto della città,
il via vai delle genti che vagabondavano tutt’intorno
e il lavoro di quelli che, come da un lontano crepuscolo,
erano qui presenti con l’opera delle proprie mani,
coi battiti dei cuori e con l’oscura sorte;
e miravo, e pure ascoltavo cosciente
lontano, sempre più lontano
il crimine… e l’amore, e l’angoscia di una madre,
il tradimento e la fedeltà… e la dura miseria,
ho succhiato ogni cosa dalla tempesta
in quelle tristi serate, quando all’imbrunire
una gelida e malinconica nebbia, come un velo,
ammantava la città.
E avvolto tutto intero
nella tristezza, così in fondo
come nel proprio consunto pastrano nero,
cercavo le parole per una musica onnipotente.
E qualche volta ha fatto delle promesse quella
dal passo lieve danzando di nuovo altrove, e sorridendo.
Seulement dans le vin cherche ton espoir.
E ci siamo seduti davanti a un bicchiere di vino.
Passeggiavi in bombetta, fumavi un sigaro,
mettevi nel tè un po’ di rum,
forse ti ricorderai ancora della tua ragazza,
– già con un altro aveva avuto un bambino,
era tenera, premurosa e ti dava lezioni
finché ti piaceva frantumare e baciare
più di un solo istante che le apparteneva.
Tua madre venne a raccontarmi
che sono la tua rovina… mi voleva bene.
Oisive jeunesse, à tout asservie,
questo già lo sapevamo ed era tanto;
Verlaine e Rimbaud conoscevano già la fine,
ci scrivevano poesie e rugiade d’argento
spruzzate di vino.
Sedeva con me il mio caro Max Jacob,
e ci giocavamo a dadi, bestemmiando al buio,
soltanto il vento. E dove se ne andato il vento?
Il vento dove se andò? E non c’è la Rusalka?
E dov’è il verde salice che al mattino
si lascia amare sotto la pioggerella salmastra?
Ah, non c’è più nulla… e non ci sarà un domani!
Max Jacob e il tetro monastero spagnolo
dove accanto alla porticina trovarono un bambino giudeo!
Non ci sarà nemmeno questa impura col naso putrefatto, cadente,
senza guancia, silenziosa e vittoriosamente terribile!
Soltanto un caso, quando lei gettò l’unico
suo istante nelle acque dello Stige nel fiore degli anni,
ché per tutta la sua crudele vita già
non poteva e non voleva ritornare in nessun luogo?
E io la miravo ogni giorno nella nostra via,
che mi era ignota come questa sorella senza naso
che mi spaventava nel sonno al posto suo.
E dov’è? In nessun luogo. E sull’altra riva, là?
E lei di quale colpa si cura, là? Ma… invano?
Tacque il piano che i suoni sprigionava
senza una meta, nella malinconia più triste.
Sei futile, Poesia! E come ti vedo vuota
con tutte le tue parole! E sono di nuovo addolorato
e sempre avido di ciò che fugge.
Io bramavo d’afferrare la vergine del Lago
nel suo tragico scherzo, quando la magica virtù
la seduce sulle acque cupe tra le nebbie.
Si è dileguata la vergine del Lago e ogni cosa,
il cavallo con le ali e dalla testa umana,
l’azzurra etèra che dormiva con me;
Sacco e Vanzetti che, per le feste di Natale,
cercavano nell’inferno le lagrime dei loro bambini
– non danza più Anita Berber,
– Mary non recita più il Piccolo lord,
– Lindbergh è già atterrato e nessuno lo sa
– s’è dileguata Cenerentola … non c’è… non c’è…
Non ci saranno via Venezia con tutte le vecchiacce,
il signor maestro ciabattino e la sua Lenka,
questa giovane donnaccia col vecchiaccio
così tantocari e tanto saggi.
Non ci sarà Heřman Zefi e la sua stimata figlia
così forte e voluttuosa, giusto per essere baciata,
che sta col suo mangano sognante e non sa
– non lo può dire ancora – che forse domani…
forse uscirà un sette rosso di cuori.
Portavo pranzi a Elsa, questa vecchiaccia
che leticava per notti interi con la luna;
quand’era era bella andava per Praga con la carrozza,
l’amante la lasciò e lei si calò la sottana:
impazzì tristemente, e anche lei non c’è più.
Dov’è il signor Razím che giù all’angolo
aveva un ricco negozio come nei sogni dei poveri?
Navi che trasportavano caffè,
caffè e the e pure vaniglia profumata.
Razím vendeva biglietti… vinse
una civetta bugiarda e una nottola opalescente.
Tutto, come una gloria! Ma dove sono finiti quei tempi?
E dove sono finite le chimere che dormivano
sull’ospizio? Non le bacia più nessuno,
non ci sono più poveri e io non sono più poeta!
E chi seduce ora la signorina Tonička,
a chi svelerà le rotondità del suo polpaccio
nella reticella verde della lanterna?
Non seduce più nessuno!
Dov’è quel danzatore, un fachiro indiano,
il nostro Ore Taracco della celebre Lucerna?
Dove esegue, con quell’immobile volto egizio,
la danza fatale del suo mortale spasimo?
Dove sua madre getta adesso le reti innocenti,
nei desideri che non sono più suoi?
La mucida ragnatela da tempo l’ha avvolta,
e lei non voleva, non voleva più!
Gratitudine umana, chi solo ti risanerà?
Lei era una sarta di biancheria per signora,
abitava con la signorina Mařenka di Plseň
e aveva un amore segreto… e appassiva.
Lo zio invano insegnava a entrambe per anni
il francese, come se avesse soffiato nel violino,
ogni adieu era così triste, quasi un addio.
E anche questo non c’è più.
Ieri mi sono smarrito sul confine
di una riva di oscuri e lontani eventi,
dove un tempo un ubriaco e impazzito satiro
sedeva insolente sulla grata di un giardino
e rideva delle vergini. Non esiste più..
Ma se ci fosse, un satiro sobrio sarebbe un infamia.
Solo un’onda dopo l’altra scivola verso la riviera,
e rotolerà e spruzzerà pietre e sabbia,
e qua e là l’erbaccia o strappando i fiori
solo per gioco. E all’improvviso una rupe,
che si erge e sta lì da secoli franerà
tra le onde… poi le acque si chiuderanno.
Calura… s’avvicina una tempesta.
La serra è aperta, hanno portato le palme fuori,
c’è una curiosa spalliera là nel giardino.
E verso un altro giardino lontano quanto una lagrima,
– dove impazzì pure il nostro Smetana,
lui puntava verso un sordo cielo un flauto
e un violino… tutta l’orchestra era assordita,
e in un altro… un altro giardino presso Kateřinky,
lo snello minareto di Dientzenhofer
esiste, ancora.
E gloriosamente seducevo!
Ho scritto una poesia serale su questo sogno,
la decoravo con le stelle del mattino,
– era come un segnale di desideri vagabondi.
E come ho sedotto! E chi l’avrebbe previsto
che sarei arrivato anche là ?
Ma non c’è posto per i rimpianti!
Ero forse pazzo! Ma devo dire la verità?
Attention! You are a Bikini place!
Chi lo può sapere, io non lo so
e non voglio saperlo! Ma tutto era bello
e famoso. Era questa una dura lotta per l’onore!
Fatemi gli auguri perché resti in questo luogo,
dove dalle mani d’un pazzo amabile ho ricevuto
il primo e più caro alloro, che ancora conservo.
Umile e taciturno ho posato un rametto
ai piedi delle sante, alla patrona della cattedrale
e a Santa Barbara. E osservo il minareto
bianco e indolente che sta su ogni dolore.
E guardo là, sotto la costa della rovina,
le onde che rotolano scure a azzurrognole.
La favola sulla creazione del mondo è una favola,
e della sua fine, ah, chi se ne curerebbe!
Calura… s’avvicina una tempesta.
Questi rettili e scorpioni osano uscire dai loro nidi,
e nessun potere avrebbe ispirato loro la vergogna!
Ancora uno sguardo, e dopo mai più!
Via Venezia, addio, addio!
Berenice, Berenice!
Sento…
fatali gridi, fatali mutamenti,
sempre – ma di dove? – si sente all’improvviso,
ma da tempo io so già tutto – urgente
mi chiama il Fato! Non è terribile, questo?
Berenice!
Già, vado via. Un ultimo sguardo ancora,
ma non muta nulla. Anche tutto questo, da tempo,
è caduto nella polvere e sopra vi è cresciuta l’erba.
Cuore, ancora non puoi rinunciare?
Attraverso la fessura si spande nelle camere la penombra,
una volta forse c’era una speranza, oggi c’è solo angoscia,
una mortale angoscia! Perché non dovrei dirlo?
E cerco come Orfeo questo filo.
Cuore, ancora non puoi rinunciare?
Soltanto con un piccolo amaro sorriso domanderò
se ancora ricorderai il primo istante
quando, come uno studentino, sei venuto da me
per confessare umilmente che anche tu sei un poeta.
Era sera.
Come tutto ciò ancora mi è chiaro.
In quel primo istante
eravamo insieme nel salone della zia,
così come durante il giuramento.
Il nostro testimone fu Maria Antonietta.
Il pittore Pilotti l’ha dipinta fedelmente
prima di morire. Il boia la conduce
sul patibolo. La folla si guarda intorno.
Ha un vestito oscuro e solenne, ha sul collo
un fazzoletto giallognolo… la sua mano
e il suo magro pallido volto straniero,
i capelli… grigi. Tra la folla una giovane
donna guarda e non sa che in lei c’è tutto:
imbarazzo, orrore, malignità e invidia,
rimprovero, pietà e terrore.
Regina, ancora un paio di passi… e
È caduta la gabbia. Quando più tardi
mi conducevano là – ascoltando parole beffarde
e triviali da bocche ceche – mi ricordai di lei…
la folla ancora si vantava d’esser capace di condurre
al supplizio anche una donna! Povero me!… Me, povero!
Voglio fuggire da questo luogo!
Ma allora non sapevo
quando ti ho ricevuto per stare insieme per gli stessi sogni,
non sapevo ciò che ora so. Nessuno, quella volta, poteva spaventare
con una sentenza capitale un poeta! E nemmeno una donna!
Una volta… era così. Soltanto un barbaro avrebbe osato
attaccare una donna in una guerra barbara!
Ed è lo stesso barbaro che s’inginocchia davanti ai propri cantori!
Nessuno poteva credere che Nerone
avrebbe potuto rubare la corona di lauro ad un poeta:
soltanto le statue potevano applaudire.
E solo pura favola!
Il poeta Chénier ha perso la testa.
Una volta… era così. Ma il poeta è poeta:
indovino e principe!
Successe anche a Garcia Lorca.
E a tanti altri nell’allucinante era stalinista.
E da quel tempo, cuore, ammettilo
che sei già cinico, hai già scacciato i sentimenti!
Ma che nobiltà la scure, la corda
e la pallottola rispetto al gas!
…veniva spintonata in gruppi questa plebaia
infame che non sente – le più basse tra le razze…
ebrei barbuti, subumani, russi e tutti gli slavi,
tutta l’Europa! Tutti verso la stessa fine: eruditi,
poeti, bambini, donne… quale orrore
e quale maledizione! E quanti boia sono ancora in libertà
tra di noi, e come vivono tranquilli!
Tranquilli? No! Non vorrei essere nella loro pelle,
come in un letto di rose… e come ci stanno bene, e sono tanti!
Non esistono più queste anime, morte e degenerate.
Su chi cade questa colpa, su quali ginocchia
e su quale madre capace di generarli?
Da quali diavoli si è potuto generare questo seme
e da cui sono usciti? Mi dispiace per i bambini
che da loro sono nati. Tu, Pietoso Signore,
meglio che li strangoli, che lasciarli a torturarsi
con la loro colpa paterna e con l’opera
o a macchiarsi di sangue.
Basta così!
Cosa fare? Se su ognuno cade questa colpa.
Dov’è questo miserabile aiutante del boia – questo fratello! –
che si compiace tanto bene a mettermi la corda?
Che secolo di scellerata infamia!
Mi vergogno terribilmente, e ho tanto paura.
Amico, raccontami, ti vergognavi
quando eravamo insieme davanti alla forca?
Vedi… un istante… ancora… e la regina
sarà tua sorella… così decapitata era presente
al nostro giuramento, e tu sai già cosa
vuol dire avere paura. Sei un poeta, per questo!
Bello è amare, amato è il morire!
Mio caro Puškin, quando soffrivi
sotto l’arbitrio della banda zarista,
hai detto: mi amerà il popolo! E adesso? A cosa credi ora
quando, in nome della nazione e del popolo, mi giudicano
duramente per la tua antica colpa!
Vogliono azzittirmi, rovinare e imprigionare,
fucilare e tagliare la mia testa con la scure,
– ammazzare con la corda, col veleno e col gas
tutto ciò lo hanno realizzato di volta in volta,
hanno voluto il mio corpo e la mia anima,
– mi volevano comprare e terrorizzare, inutilizzare,
– vendicarsi spietati sulla donna, sui bambini,
– bruciare i miei libri e disperdere la polvere,
– infamare il nome e profanare le ossa…
tutto ciò hanno realizzato poco alla volta…
tu, Hus, mio compatriota, hai potuto essere almeno
un martire e lo hai detto senza vergogna –
il moderno prestigiatore non ha queste brame:
non parlerà con me e mi fucilerà direttamente,
mi ammazzerà come un cane perché non cedo,
o si mostrerà ancora più terribile:
obbliga e obbligherà a dire la “verità”,
e a “confessare”, rinunciare, fare penitenza,
– e, credetemi, questo lo so fare come fossi un maestro.
Come mi vergogno per lui, fin nel sangue!
Tutto ciò lo hanno realizzato poco per volta:
manicomio e carcere criminale erano i miei castelli –
loro, gli stupidi, non sanno che il mio castello è altrove
e che sono un uomo instancabile e un’idra a cento teste,
un Proteo capace di migliaia di trasformazioni e somiglianze,
e che col fuoco che io ho rubato a tutti i cieli
brucerò i loro mostruosi palazzi
e brillerò per questo di nuovo come una bellissima stella!
Non ho né corpo e né anima… anima?
prendila, Honza, prendila per averla con te nell’oscura cella!
Lo spirito soffia dove vuole.
Ma per voi questo è inutile.
Io sono qui e ci resterò. E un mio diritto
Ho il diritto di dirlo… quando già è successo!
Bello è amare, amato è il morire!
Forse pure nell’infamia… e ho tanta paura!
Amico, dove sono tutte quelle bellezze, i profumi?
Qui ci sono soltanto tumuli di nebbia e amori,
ma dove sono gli amori ch’erano così belli!
Come lontani e remoti sono i primi istanti,
quando ero solo un sognatore innocente,
quando, amico, ti invitavo!
Ed è lontano, straniero il magico istante,
quando l’abate ci predicava la poesia pura,
quando Valéry sedusse la Giovane Parca
e lei, la bella, mi sedusse facilmente:
l’ha fatto apposta, conoscendo la sua magia!
Mio caro, sai come piovono le voci ancora,
quelle voci di giovani donne che tessono da tempi remoti?
Ci chiamano dalle lontananze, ci invitano, ci salutano
Dante e Petrarca con le loro donne?
Come il dolore dai campi e il riso profumato di rose?
Anche Virgilio mi guida attraverso la macchia del bosco.
Solo con un piccolo sorriso ancora domanderò
se un poco ricorderai il primo istante,
quando stavamo insieme davanti al patibolo.
Questa è la verità, altro che la poesia!
Avevi anche tu, paura? Io, avere paura? Non l’avevo!
Ero solo triste, sputacchiato, svuotato,
ho desiderato solo che si sbrigassero, e subito.
Pensavo a tua madre che ancora non riesce
a credere, e diceva a ragione
che sono la tua rovina. La tua rovina è la poesia!
E io sono chi sono… sono davvero il mio destino,
sono il destino di tutto ciò che mi gira intorno
e in qualche luogo questa scrittura è segnata in profondità
ed è chiaro il confine come una lama affilata
su cui cammino inquieto per il mondo…
non dovresti più seguirmi! Io non sono la pace!
Amico, dopo una così lunga via
fatta insieme, puoi restare… è stato davvero bello…
tutti ho perdonato … e ora perdonami anche tu.
E devo congedarmi adesso e non voglio più fare versi,
devo separarmi duramente, a fatica… il mio sentire
s’è pietrificato! Ho smarrito la grazia e la canzone,
si sono mutati in amari cristalli le mie lagrime
ed io stesso sono un’insensibile lama e acciaio.
Ho lasciato il mio cuore a Leopoldov,
alla Ljubljanka, alle tristi Solovki, in Grecia,
a Varsavia, a Auschwitz, in Messico, a Madrid,
in Africa… Pechino parla delle mie sofferenze…
e sono meschino e indigente in tutti quei luoghi dove il poeta
cerca la meravigliosa libertà attraverso il proprio cammino,
che è ovunque… là e in ogni luogo dove si soffre!
E ho lasciato il mio cuore alle donne e ai bambini
che dovevano giocare sul patibolo,
proprio là… dove s’impicca!
E io sono con loro!
Non voglio essere straniero a nessuno!
E la mia casa è in ogni luogo… là dove è caduta una lagrima!
Auguratemi se qui mi fermerò un istante,
auguratemi… perché io possa congedarmi
da ciò che è poesia
e verità!