“Tracina tracotante. Poema d’amore in atto unico” di Marco Gargiulo
Recensione di “Tracina tracotante. Poema d’amore in atto unico” di Marco Gargiulo, edito da Aracne.
Una voce musicale che si estende su una leggera prosodia lirica, un poema, ed è, quasi, un unicum , della letteratura italiana, che si intreccia su un centinaio di pagine, tutto questo è l’indescrivibile Tracina tracotante di Marco Gargiulo. I molti temi, i tanti motivi allegorici, che si susseguono e si inseguono tra le pagine, ben si accodano a una narrazione letterale e intima che dipinge, tramite versi sonori ma difficilmente metrici, una lunga ma mai noiosa scena teatrale: una rappresentazione concreta di un astratto intimo e, proprio perché intimo, glaciale e funesto. Un testo, insomma, che, quasi, appartiene di più al campo delle scene, all’esperienza teatrale; proprio perché, dopotutto, tramite esse, tramite le scene, tramite alcuni meccanismi del genere, si nutre (e si corrompe). Lo spazio bianco, per esempio, è una pausa netta e sfarzosa e viene sapientemente esibita, soprattutto, a livello macrotestuale: ogni momento ̶̶ infatti, non è possibile parlare di componimento o sezione ̶ si isola tramite il silenzio obbligato e ricco di una pausa lunga: la pagina bianca regna sovrana in Tracina concedendo al lettore una lettura attenta e riflessiva. Si è letto e si leggerà solo attraverso una continua sospensione del senso e del nesso su cui focalizzarsi; interruzione che (non sempre) viene ostentata anche tramite delle indefinite pause musicali: logicamente tutte immaginate; eppure evocate ed esibite dall’autore, intento a dipingersi quasi alla pari di un compositore (e il paragone con certi testi caproniani emerge in superficie non come uno scomodo precedente ma semmai con la funzione rafforzativa atta a valorizzare una presenza contestuale all’opera). La voce femminile, che il lettore è portato a riconoscere autonomamente come concreta protagonista dello psicodramma, avanza e percorrere temi classici con una leggerezza tipica della poesia contemporanea (nonostante sia già di per sé esibito il gusto retorico nella definizione del genere stesso: il poema non è più in voga da tempo, e lo sappiamo tutti): la memoria, la notte, l’amore, l’ansia, la disperazione senza vergogna (descritta senza paura di usare una lingua viva, p.e. «Speravo di entrarti nel cervello come un cancro. Speravo di infilarmici. Di rubare l’inconscio e infilarci dentro un vattene grande come il mondo, p. 39) si mischiano l’un l’altro mentre la sensazione di una continua frustrazione trova il suo compimento nelle fasi descrittive, p. e. ma non solo, dell’anatomia umana: «Tendo e mi stendo i nervi» è ciò che fa la Tracina. La voce protagonista impegnata nel più difficile dei compiti: invitare a una ricerca che può assumere i tratti di una dramma cosmogonico e, al contempo, individuale, come accade nei seguenti versi:
Il mio fucile mi guarda severo.
Avrei dovuto ammazzarti, senza pietà.
Avrei dovuto tapparti la bocca prima che tu pronunciassi la
tua banale sconfitta
e resa la rima ti rispedisco all’inferno.
Giù, dove neanche tu potresti trovarti.
(p. 25)
Ma cosa o chi è la Tracina? L’inafferrabile bestia dell’io? La genuina sensazione di vita offuscata dalla malizia matura che prova, poiché invincibile, a insinuarsi, o a insinuare la propria voce, nel percorso appartato di chi non osa? Forse, è figuralità di “chi non resta”. Ma il suo segreto amoroso vive nella narrazione superficiale di un sentimento perduto; novella Arianna, ella non vuole rassegnarsi all’abbandono e grida affinché la parola, con la sua potenza atavica (e poetica), riesca a fissare il dramma e a colmare (sebbene il segno non possa poi riuscirci davvero) la tragicità perenne del ricordo. Meraviglioso lo sfogo di pagina 29, che qui riproponiamo per intero:
Avrei voluto tenerti. Mio.
Non temevi
Non pensavi.
Volavi
e tornando scoprivi quelle distanze che io tentavo di colmare…
irrimediabilmente inconsapevole di essere prigioniero di
un delirio senza ragione.
Il desiderio di te che aumenta ogni volta che ti ho.
Appena ti tengo. Come una pestilenza.
Dammi voce.
Sento nei polpastrelli la scossa del verso,
tento a parole di ricrearti.
Ma la parola è lama che incide la carne.
Ma la vendetta di un’Arianna moderna potrebbe avere successo solo tramite il superamento dell’altro, e paradossalmente tramite la sua conservazione: e questo è quanto succede nello sfogo di una storia narrata in versi e non solo descritta come accade nelle, spesso, scialbe raccolte poetiche d’oggi. Si veda la parte finale di pagina 97:
Sento gli occhi che mi si chiudono lentamente, e vedo
quella luce che si fa sempre più piccola, sempre più impercettibile
e distante.
Mentre mi sento sempre più mia.
È solo nella riappropriazione del proprio io che la Tracina può riuscire ad allontanarsi dal ruolo di comprimaria che il drago (il leggendario compagno) le ha affidato. Eppure ̶ e Marco Gargiulo (narrato unico di una storia translata) lo sa bene ̶ la ricaduta è un peccato dolce su cui la Tracina (imperfetta come l’essere umano) resta spesso impigliata. Solo nel desiderio inesaudito di un ultimo bacio e nella descrizione della colonna sonora di questo dramma è possibile «forse» (p. 105) trovare un provvisorio silenzio e un delicato finale. In definitiva, un poema unico come vorremmo che ce ne fossero spesso.