“Storie di un operatore sociale” di Giuseppe Arrivo
I moti che animano le pagine di questo libro sono l’urgenza e l’ energia. L’urgenza di Giuseppe Arrivo di raccontare e spiegare. Far comprendere al lettore quanto sia complicato e complesso essere un operatore sociale e quanta energia sia necessaria perché la logica dell’intervento venga rimessa in discussione e in qualche maniera rimodellata sulla base dei reali bisogni di chi è in difficoltà. Sin dalle prime pagine Giuseppe Arrivo ci invita a percorrere insieme le sue strade sdrucciolate e disseminate di ostacoli, mantenendo uno sguardo alto e fiero, consapevole e spassionato perché sì, è vero che “a vent’anni si può protestare e far casino, ma è da adulti che si può cambiare il mondo” e per far questo, nella considerazione di ciò che ci accingiamo a leggere delle sue storie, ci esorta da subito “ a esagerare, a metter da parte la moderazione… e non aver paura della solitudine”. Entriamo così nel vivo di una serie di gironi ben noti, di cui – da non addetti ai lavori – finora abbiamo solo ipotizzato i contorni senza conoscerne il nucleo. L’operazione di Giuseppe Arrivo è di portarci a cogliere questo nucleo, facendoci attraversare le campagne nel micro-mondo del bracciantato agricolo tra gli immigrati, aprendo una breccia nei pensieri devastati di una giovane donna africana costretta a prostituirsi, facendoci incontrare i tossici che vivono nelle Comunità, parlandoci dei Ser.T., spiegandoci la differenza che passa tra un senza dimora, un senza casa e un povero, lasciandoci incrociare lo sguardo di un cosiddetto bullo arrabbiato e picchiatore, o le allucinazioni di un alcolizzato disperato.
Con un linguaggio forte, talvolta crudo, ma estremamente realistico, l’autore condivide i suoi ragionamenti, le difficoltà, le debolezze e la soddisfazione del superamento delle stesse in un atteggiamento di raccordo dialogico e costante con il lettore, quasi volesse convincerlo delle proprie idee e chiedergli al tempo stesso, un coinvolgimento più partecipato ed emotivo delle idee e delle testimonianze che espone.
“Un operatore sociale, o mette in discussione, con la propria vita, tutto quello che porta alla sofferenza delle persone che incontra, oppure non è, non ha ragione d’esistere! L’operatore sociale deve essere in grado di rappresentare percorsi alternativi di felicità rispetto ai percorsi di felicità surrogati che proprio le persone che soffrono, con i loro visibilissimi sintomi, dimostrano di rifiutare”.
Ho trovato di particolare interesse alcune considerazioni sulle istanze che caratterizzano, diversificandolo, l’intervento di un operatore sociale da quello di un volontario, sull’urgenza dei meccanismi di interventismo a tutti i costi rispetto alla capacità di sviluppare una visione d’insieme delle problematiche in atto.
“Abbassare la soglia del sociale significa anche questo: uscire dalla pretesa di cura, dalla pretesa di offrire soluzioni, per entrare nella logica della vicinanza, dell’accompagnarsi, del semplice esser presente”.
Numerose e corrosive le sollecitazioni offerte da questo libro, necessario e utile proprio perché non si rivolge (solo) agli addetti ai lavori e perché racchiude, in una lunga serie di testimonianze vissute sulla propria pelle, la forza e al contempo le fragilità, di chi, come Giuseppe Arrivo, sceglie di mettersi in gioco ogni giorno, impregnandosi di quell’odore di sporcizia, afflizione e sofferenza che consuma nel profondo anche le corazze più dure e che, nonostante tutto, arriva a fargli dire “L’inferno è il mio paradiso”, una dichiarazione massiccia, che solo chi è abituato a coltivare passione e impegno nelle proprie azioni di ogni giorno è davvero in grado di proferire perché (come conclude l’autore) ognuno dovrebbe imparare ad “ascoltare il proprio tuono”.
“Mi sentii strano. Non era la prima volta che mi sentivo strano; mi sento spesso strano. Mi sento strano, quando il mio vissuto o la mia analisi relativi a un evento o a un fenomeno non coincidono con i vissuti e le analisi degli altri; quando gli altri mi sembrano superficiali e io mi sento profondo; quando le persone superficiali hanno il potere di farmi sentire impotente e disarmato, nonostante la mia profondità. Mi sento strano anche quando gli altri mostrano di potersi pulire il sedere con la mia profondità. In quei momenti il bambino che è in me ha bisogno di affetto, protezione e vuole la mamma che lo accarezzi e gli dica: -Non è nulla bambino mio, non è nulla, passerà… sono tutti cattivi quelli! – Così, nel prendermi cura della mia tristezza, nel far dono di essa alla mia saggezza, trovo la ragione per andare avanti!