“Stalin + Bianca” di Iacopo Barison
Recensione di “Stalin + Bianca” (Tunué, 2014) di Iacopo Barison.
La scritta LOVE illumina una porzione del marciapiede antistante. Entrando, saluto il tipo grasso e raggiungo i bagni del nostro piano.
L’atalante di Jean Vigo, morto giovane di tubercolosi, era un film romantico e disperato. Parlava di una ragazza di paese che sposa il capitano di una chiatta fatiscente. Di fatto, vivono sul mare, e la cosa gli crea dei problemi. A un certo punto la ragazza dice di riuscire a immergere la testa nell’acqua, tenere gli occhi aperti e vedere il volto della persona che ama, ossia il marito. Il capitano della chiatta, allora, mette la testa in un secchio d’acqua e si dispera perché non riesce a vedere nulla. La vita è fatta di operazioni simili. Nei bagni, riempio il lavandino di acqua tiepida e mi guardo in giro – non c’è nessuno – dunque trattengo il respiro e immergo la testa nella pozza che si è creata. Sono curioso. Per un attimo credo di vedere Bianca. Poi niente, soltanto la finta della ceramica del lavandino. Mi asciugo ed entro in camera. Bianca ha le cuffie e sta ascoltando la musica a un volume che le permette di sentire i rumori.
“Dove sei stato?”
“Ho immerso la testa nell’acqua”.
“Ci hai messo tanto”.
(pag.85-86)
Immaginario ‘post’ (si è sempre ‘post’ di qualcosa), tanto cinema, fumetti, cultura pop, e un viaggio di iniziazione che Stalin – soprannominato così perché il quasi diciottenne porta baffi che ricordano il dittatore russo – intraprende con Bianca (eterea e dolce ragazza cieca), dopo che lui in uno scatto d’ira ha malmenato (o ucciso?) il suo patrigno. Jean invece, un custode di uno stadio, lo sfrutta per i suoi traffici illegali, il loro è un rapporto ambiguo. Forse Stalin si è macchiato di un delitto per conto del suo referente? Forse Jean sopperisce un po’ alla figura di suo padre? Fotografo free lance scomparso in circostanze poco chiare.
Di fatto Stalin e Bianca percorrono un viaggio verso la Capitale, che è un viaggio in tutte le Capitali del mondo, intendendo che Barison non ci offre riferimenti geografici di una nazione perfettamente individuabile, ma trae quegli stilemi di una cultura ormai globalizzata e trasversale, dove emergono nuove forme di degrado, ma anche sfide interessanti ed opportunità.
Abito a Roma e per un attimo ho creduto che Barison parlasse di questa capitale nel viaggio dei protagonisti e ho immaginato la città di origine di Stalin come un grande centro del nord, magari Torino, o forse ancora di più le descrizioni di Barison a me ricordano i grandi centri dell’hinterland milanese o la periferia di Genova. Ma è tutta una costruzione che fa il lettore, perché di fatto non vi sono contestualizzazioni di questo tipo, però la cosa davvero interessante è che invece il lettore li trova facilmente, ovunque sia nato e ovunque abiti.
Quest’anno ricorre il 25° anniversario di Blob, il noto collage televisivo, che in tutti questi anni ha dimostrato una cosa: se noi prendiamo il nostro paese, lo smontiamo e lo rimontiamo a piacimento, pensando di trovare migliori soluzioni, il risultato non cambia. Se pensiamo a nuovi incastri a un puzzle differente, alla fine ogni risultato sarà lo stesso. L’operazione matematica che assomiglia di più all’Italia è l’addizione: cambiando l’ordine degli addendi il risultato è lo stesso. Allo stesso modo Barison dimostra che non fornendo riferimenti geografici, ognuno riconosce la realtà e l’immaginario che l’autore ci offre come se fosse il proprio, e questo da qualsiasi punto.
I protagonisti partono da una certa città per raggiungere la capitale al nord, ma noi pensavamo invece fossero di un luogo come Cinisello Balsamo. A ben pensarci la loro potrebbe essere quindi anche una certa periferia di Napoli, Palermo, Bari o ancora di Reggio Calabria.
Certamente possiamo facilmente presumere o immaginare che il romanzo si svolga in un’Italia un po’ attuale e un po’ prossima, e ancora di più in una concrezione pura di riferimenti trasversali (e pop) presenti in molti luoghi dell’occidente, dove si mescolano nuove o futuribili tendenze urbane e suburbane: i locali dedicati ai temi più vari (alla sofferenza, alle catastrofi), i musei dedicati alla ‘storia del degrado ambientale’, personaggi che danno le forme più diverse alla loro alienazione. Di cosa ci sarebbe da stupirsi? In Italia abbiamo per esempio molti musei dedicati agli strumenti di tortura. Io stesso ne sono stato trascinato in diversi perché pullulano tra Umbria e Marche. E poi un po’ tutti siamo imparentati con Blade Runner e Matrix: locali con individui gemelli e siamesi nel vestire con dettagli sofisticati, facce di nuove razze, donne con treccine posticce, mentre il cibo, il nostro cibo è sempre più multietnico. L’etnico non è una tendenza, una scelta, ma un dato di fatto, come e di più dove si crede che non lo sia. Non tutti sanno che per esempio la gran parte di cuochi di cucina romana a Roma è di origini pakistane, egiziane o indiane. Esistono grandi accademie di cucina nel Maghreb o in medio oriente. E magari il sushi che si mangia in vaschette è preparato da esperte mani italiane in uno dei grandi service di catering che riforniscono gli uffici. E poi ci sono i Veg Burger, i fast food di ieri, di oggi e di sempre.
Barison ci propone un immaginario de-localizzato: i protagonisti si trovano sempre in una realtà altra, in una nuova dimensione nella quale sono proiettati, questo perché il motore sotterraneo della storia è la ‘rabbia’ di Stalin. Un disturbo che gli impedisce di controllarla, divenendo pericoloso per sé e per gli altri.
È una narrazione trasversale e orizzontale quella di Barison, un melting pot che è anche dell’anima, dei gusti, dei consumi. Una realtà che a volte esalta, altre appiattisce.
“Ho scritto una poesia su Beethoven”, dice Bianca
“Sei soddisfatta?”
“In realtà parla di noi che ascoltiamo Beethoven”
“Come l’altro giorno, quando lo ascoltavamo in camera tua”.
“Infatti parla dell’altro giorno. Parla di noi che ascoltiamo Beethoven e giochiamo alla guerra.”
“Quale guerra?”
“Non lo so”.
“Be’, vuoi recitarmela?”
“Le poesie non si recitano: si leggono”.
“Questo me l’hai già detto”.
“Devo perfezionarla”.
“Va bene”, rispondo. E sul treno la temperatura si abbassa. Rimetto la felpa.
(pag.58)
Ci alziamo e la sabbia sui vestiti scivola gradualmente, cadendo a ogni passo, e la polvere levita insieme a cartacce e brandelli fibrosi. Lattine di birra vuote rotolano sul bagnasciuga, senza che il mare riesca a inghiottirle. Prendo una pietra e scrivo SINTESI sulla riva inscurita dall’acqua. Un’onda si alza e cancella subito la parola, e io capisco che l’apogeo della sintesi corrisponde al silenzio. Sintetizzare, riassumere, schematizzare. Cellulari sempre più piccoli, televisori sottili, processori fulminei e ibridi informatici. Questo è il dono della sintesi. La riduzione oggettiva che deborda ovunque, saturando gli spazi vuoti. (pag. 132)
La mia immagine riflessa nella base di un grattacielo. Dietro di me c’è un semaforo rosso, un giovane broker vestito di nero, un senzatetto mutilato che si sposta con un carretto. Questa crisi universale, questo disordine le cui ragioni sfuggono. Abbiamo seminato eventi, dati, circostanze, eventi ripetibili, e l’immaginario comune è diventato sterile. L’origine della crisi è sepolta sotto un cumulo di risorse umane, teorie scientifiche e suggestioni cabalistiche. Aspettiamo che il semaforo diventi verde, che un organo imparziale dia il via alla ripresa, ma il colore del semaforo non vuole alternarsi. (pag. 139)
(parla il giocoliere)
“Adesso, invece, le possibilità di scelta sono infinite, perciò non quantificabili, e gli stili di vita che ne conseguono sono troppi e inconsistenti. È per questo che lancio gli oggetti in aria: sono sicuro che ricadranno. La forza di gravità, per fortuna, non è ancora passata di moda, e lanciare gli oggetti è una cosa semplice. Elementare nel suo ripetere il tragitto inverso. Dalla terra al cielo e dal cielo alla terra. Non c’è nulla di più semplice, nulla di più antico. Il problema sono i soldi. Nessuno ti paga per lanciare birilli in aria.”
“I soldi si trovano”, dico io.
“Certo, e dove si trovano?”, mi chiede la ballerina.
(pag. 105, 106)
L’universo dell’autore è quindi contaminato e disseminato di suggestioni diverse, che ci vengono a trovare come ospiti inattesi, irrompono dallo sterminato repertorio di riferimenti globali che pervadono le nostre esistenze.
Per un periodo, li ho visti spesso camminare insieme. Lo scorso mese, quando la ragazza è andata in overdose, l’ambulanza è venuta a prenderla e piovigginava e la sirena fendeva il quartiere. Ricordo perfettamente – era notte e fumavo erba e guardavo un vecchio film con Godzilla. I giapponesi scappavano dal mostro, e i paramedici contavano fino a tre e sollevavano la barella.
(pag.25)
“Si sta facendo buio”, ho detto.
“Ho sentito che una tribù di indiani, non chiedermi quale, attaccava i nemici soltanto di giorno. Mai e poi mai di notte. Credevano che il Grande Spirito, se fossero morti durante un attacco notturno, non sarebbe riuscito a trovare i loro cadaveri. Di conseguenza, non avrebbero avuto accesso alla vita ultraterrena”.
“Gli indiani credevano nel paradiso?”
“A modo loro, ma ci credevano”.
Decido che non voglio finire come gli indiani, allora aggiungo + BIANCA sul tronco dell’albero, vicino al mio soprannome, e il senza-tetto si dilegua mentre il cane continua a seguirlo e a infilarsi fra le sue gambe, rischiando di farlo inciampare. Non voglio finire come gli indiani, quindi aspetterò domani e fumerò dell’erba, poi ci dormirò sopra e sognerò Godzilla e la ragazza portata via in barella.
(pag. 98)
Questo mondialismo trova connotati diversi, a volte quasi alienati o naturalmente irriverenti. Anche se personalmente ho sempre notato come non tutti parliamo un linguaggio comune. Voglio dire che ci sono probabilmente persone che ‘assorbono’ di più e altre di meno in quel grande contenitore chiamato pianeta, che in questo senso sono più conservatrici. Senza una visione notturna di Godzilla pensando un po’ a Tokyo Ga di Wim Wenders saremmo le stesse persone? Probabilmente no.
Il libro di Barison è arricchito da ottime intuizioni e riflessioni prive di affettazione, e anche dell’amore per il cinema. Attraverso il protagonista, riscopriamo un pilastro della settima arte come Dziga Vertov, che il nostro protagonista sogna di emulare, perché Stalin ama filmare con una videocamera. E magari chissà, riprendere un giorno il ‘campo dei campi’, quello in grado di abbracciare il mondo intero, non come operazione fisica (la terra vista dalla luna), ma come elaborazione concettuale, algebrica, comprendente il tutto, l’esistente, con le sue piccole e grandi realtà.
Ci sono pertinenti citazioni cinematografiche disseminate nel romanzo. Talvolta la compenetrazione di stati umorali, onirici ed esistenziali differenti – supportati dalla manifestazione di pensieri e concetti comunque adatti alla forma narrativa – vanno a discapito della fluidità e orientano il lettore a una nuova elaborazione del flusso degli avvenimenti. Qualche raccordo non è sempre funzionale, qualche altra digressione obbliga a cambiare repentinamente contesto, ma si tratta di aspetti davvero marginali, che riflettendo ci offrono meglio l’interiorità dell’autore. Lo stesso Truffaut – citato nel libro – diceva che i capolavori ‘respirano’ grazie ai loro difetti, e io aggiungo anche gli ottimi film e gli ottimi libri. Gianni Berengo Gardin – il grande fotografo – ama dire che quando da giovane fece i complimenti a un grande maestro per una certa foto, definendola come bella, questi si offese. Già. Una bella foto è una foto perfetta, ma che risulta algida e stilizzata nei suoi parametri, mentre una buona foto è appunto un’immagine che trasuda, che ‘respira’ anche grazie alla sua imperfezione e ci restituisce un’emozione vera e autentica, così come il libro di Barison, il quale ci ricorda pure che la civiltà dell’immagine è una cosa seria, quella dell’apparenza invece no.
Iacopo Barison, nasce a Fossano nel 1988. Nel 2010 pubblica il suo primo romanzo, 28 grammi dopo (Voras). Suoi racconti e articoli sono apparsi su numerosi siti e riviste. Collabora con minima&moralia.
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