“Scavi dentro il tempo” di Mario Massimo
Recensione di “Scavi dentro il tempo” (Empirìa, 2015) di Mario Massimo.
Anni fa conobbi Mario Massimo, un professore in pensione di Foggia, distinto, che aveva scritto una raccolta di racconti – La morte data (Manni) – il cui destino editoriale, troppo spesso ingiusto, non rendeva onore e merito al valore di quell’opera che mi lasciò in bocca il sapore della buona letteratura.
Nell’arco di tempo che è trascorso da quel libro a quest’altro, Scavi dentro il tempo (Empirìa, 2015), sono nate un’amicizia e una stima profonda e sono cambiate tante cose, nel nostro rapporto e nel nostro percorso letterario.
Ciò che è rimasto immutato è quel retrogusto che mi aveva incantato, affascinato, sfamato di lettura.
In Mario Massimo non v’è nulla della lingua contemporanea e globalizzata, della creolizzazione forzata, dell’imbarbarimento delle forme, della comunicazione svuotata del “tutto e subito”. Ma non c’è neanche la cristallizzazione dell’italiano che fu, la chiusura in standard desueti che allontanano i lettori. C’è semmai un linguaggio che torna a missione letteraria, a estensione verso il centro più che verso la periferia della nostra letteratura; a una continua e raffinata ricerca.
Ricerca, appunto. Scavi dentro il tempo è proprio questo: una continua indagine sull’uomo attraverso passaggi più o meno fondanti della nostra storia e attraverso una lingua che è una sinfonia in cui stile, lessico, sintassi trovano la giusta armonia.
La forma utilizzata è, ancora una volta, quella del racconto, un modus che – nella sua scrittura – unisce la liricità della poesia con la perfezione simmetrica della prosa.
Dieci racconti che sono dieci frammenti che rimangono impressi nella memoria e nella “pietra”, un scoglio di solidità in una società sempre più liquida.
L’operazione di Mario Massimo è di archeologia: l’uomo che mi propose anni fa la traduzione di una serie di epigrammi funerari greci per “rivitalizzare” la poesia contemporanea, riesce nel suo intento di viaggiare – e di farci viaggiare – nel tempo scavando letteralmente nella storia.
In questa stratificazione continua riesce a non perdere mai la strada, come se il Nord fosse sempre impresso sulla sua fronte. Poco importa se questa immensa ragnatela ci porta in Giudea o nell’Antica Roma; nella Firenze dantesca e litighina del Trecento o in una Napoli spagnoleggiante e attanagliata dalla morsa inquisitoria.
Personaggi reali e di fantasia si fondono tra loro in figure che si inseriscono di diritto in quel percorso di realismo obbligatorio della nostra letteratura che Auerbach esemplificò nel suo Mimesis.
L’archeologo-scrittore Mario Massimo non tralascia nulla e nulla lascia al caso: la materia delicatissima che ha tra le mani è mossa con la sapienza che viene parimente dalla manualità dell’artigiano e dall’approfondimento degli studi.
Cos’è che unisce uno schiavo ebreo testimone della crocifissione del Cristo, la figlia di Brunetto Latini con la pesante eredità paterna di un libro proibito, un nobile del Cinquecento che ritrova in sé il marchio infame di Caino, una suora con velleità letterarie?
Le storie – diverse tra loro per ambientazione e messaggio – sono iponime di un qualcosa di più grande, di un trama invisibile e alchemica che racchiude tutti i personaggi; una trama unica che non c’è fisicamente eppure si fa sentire di continuo.
O se c’è, l’abbiamo ricoperta di terra perché le buche non ci piacciono: ci fanno vedere chi siamo veramente.
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