Saverio Strati: trama e ordito tra parole e vita
Quando uno scrittore muore lascia un vuoto umano e di affetti irrisolvibile per i suoi cari e tra gli amici. Eppure la scomparsa di un autore come Saverio Strati non è vera e completa assenza per chi l’ha frequentato per il tramite dei suoi libri. In più, per paradosso, anche quelli ai quali era sconosciuto in vita, dopo la sua scomparsa, potranno vivergli un po’ da vicino leggendo i suoi libri. Saverio Strati era nato nel 1924 a Sant’Agata del Bianco, un piccolo paese di fronte al mare Jonio sulla punta estrema della Calabria e lì aveva vissuto fino a quando, ventunenne, ebbe la fortuna di poter riprendere gli studi che aveva abbandonato da ragazzino, costretto a lavorare, prima da manovale e poi da muratore. Strati si diplomò a venticinque anni e subito dopo s’iscrisse all’Università. Dal fondo dello stivale, dopo gli studi, si spostò a Firenze e poi in Svizzera per poi ritornare in Toscana fino alla fine dei suoi giorni, il 9 aprile scorso alle porte dei novant’anni.
Saverio Strati iniziò a scrivere da autodidatta: «Mi iscrissi all’università di Messina alla facoltà di Lettere e Filosofia. Leggere e scrivere era per me vivere. Nel ‘50-‘51 cominciai a scrivere come un impazzito.» A Messina, Strati nel 1951 conobbe quasi per caso Giacomo Debenedetti mentre stava assistendo ad una lezione del filosofo Galvano Della Volpe. Debenedetti era seduto vicino a Strati e notò che quello studente aveva con sé una copia di Quasi una vita, il libro con cui Corrado Alvaro in quell’anno vinse il premio Strega. Incuriosito, Debenedetti lo volle conoscere e scambiò con lui alcune frasi sull’autore di Gente in Aspromonte. Dopo quell’incontro nato attorno al libro di Alvaro, Strati iniziò a seguire le lezioni di Letteratura italiana di Debenedetti e presto divenne suo allievo. Anche grazie al sostegno di Giacomo Debenedetti, Strati iniziò a pubblicare i suoi primi romanzi con Mondadori che è stato per molti decenni il suo editore. Dalla raccolta di racconti La Marchesina nel 1956, al romanzo Il Selvaggio di Santa Venere, con cui vinse il Supercampiello nel 1977, fino a L’uomo in fondo al pozzo nel 1989. Alcuni di questi romanzi sono stati tradotti e pubblicati da editori stranieri come Gallimard in Francia e Abelard-Schuman in Inghilterra, in Canada e negli USA. Nei suoi libri, Strati ha narrato le vite e i problemi degli umili del Mezzogiorno italiano nel contesto dei problemi dell’umanità del Novecento in Occidente. Un’umanità nata e vissuta dentro le crisi generate dai conflitti di classe, dalle guerre e dalle grandi trasformazioni sociali del secolo breve. Quella narrata da Strati è una collettività marginale impegnata nella continua ricerca di giustizia e di realizzazione delle proprie legittime aspirazioni. Aspirazioni personali e collettive di chi aveva soltanto braccia per lavorare e lottava ogni giorno per avere il necessario per vivere dignitosamente, osservando il progresso economico e sociale da lontano o cercandolo emigrando in luoghi distanti per geografia, lingua e cultura.
Strati nasce nell’estremo Sud d’Italia nello stesso anno in cui Antonio Gramsci, da lui studiato come importante riferimento culturale e politico, fonda l’Unità all’estremo opposto del Paese e lo sottotitola “il quotidiano degli operai e dei contadini”. Quasi un segno premonitore per un narratore che in tutta la sua vita si è occupato delle difficoltà, delle sfide e delle speranze di contadini, di emigrati, di operai e delle loro famiglie. Le riflessioni fatte da Strati in diverse occasioni sulle note di Gramsci pubblicate in Letteratura e vita nazionale, spiegano molto bene la coscienza di uno scrittore che descrive realisticamente il mondo da lui osservato in maniera non conformista ed esente da forme di narrazione lirica e decorativa. Lo scrittore calabrese nei suoi romanzi ha raccontato quel mondo da dentro e lo ha fatto secondo modalità del tutto originali. Modi espressivi che hanno trovato la loro genesi nel suo essere stato un contadino tra i contadini, un operaio tra gli operai. Uno scrittore che non ha osservato dall’esterno i luoghi e le persone delle sue narrazioni, ma li ha conosciuti in maniera intima. Strati ha infatti avuto la malasorte e insieme la fortuna di poter condividere problemi e contesti con i personaggi delle sue storie e tramite la sua narrazione ha costruito una critica di natura essenzialmente politica della realtà narrata, dei suoi elementi positivi e dei suoi limiti.
I suoi luoghi e la sua gente: questi sono due elementi primari e imprescindibili nella narrazione di Strati. La vita di gente umile, di poveri “terroni”, di lavoratori che cercano uno spazio dignitoso e un tempo non nemico per la loro vita e per quella delle loro famiglie. Vita che nei racconti e nei romanzi di Saverio Strati diventa letteratura di interesse nazionale e viene letta e studiata anche all’estero. Una letteratura che è analisi cruda del Mezzogiorno del dopoguerra, degli anni del boom e dei decenni di fine secolo. Un’indagine non indulgente della realtà del Sud, un modo di rappresentarla semplice e forte, allo stesso tempo. Una narrazione che porta la gente povera del Meridione d’Italia nella Storia per opera di uno scrittore che è stato giovane contadino e operaio e che quindi può raccontare vite reali, luoghi ed eventi di cui lui è stato protagonista. Narrazione non da osservatore estraneo ma da interprete di quei fatti, da personaggio che conosce dall’interno il narrato e che usa una lingua fortemente legata ai suoi personaggi. Una lingua che, pur non escludendo termini dialettali, è fatta di un italiano sintatticamente semplice anche quando esprime significati complessi e articolati. Un linguaggio che nella gran parte dei romanzi ha strutture espressive legate alla società e alla civiltà da cui deriva il mondo di Strati fatto di braccianti, muratori, pastori, emigranti, massari, contadini che comunicano con discorsi semplici ma profondi. Parlate semplici ma piene di parabole, nel senso che gli antichi greci e i latini avevano dato a questa forma espressiva. Parabole per mezzo delle quali persone povere e semplici che non conoscono l’oratoria dei ricchi, anzi che di quell’oratoria sono spesso vittime, sanno esprimere concetti difficili avvicinandoli ad altri più chiari e più noti e così riuscendo a renderli espliciti.
Strati ha raccontato il mondo contadino del Novecento, dai ragazzini che crescono in un mondo duro (Tibi e Tàscia), ai braccianti che quotidianamente sono alla ricerca del necessario per assicurarsi un pranzo e una cena (La Teda, Mani Vuote), agli emigranti obbligati a lasciare una terra per loro “matrigna” (Gente in Viaggio, È il Nostro Turno, Noi Lazzaroni), fino al boom economico che lascia comunque il Sud in una posizione subalterna (La Conca degli Aranci). Tanti racconti e tanti romanzi che fanno parte di un unico lavoro letterario. Per lui può valere quello che diceva Sciascia della sua opera letteraria: “Tutti i miei libri ne fanno uno. Ho scritto un unico romanzo fatto da tanti capitoli che raccontano la vita nel mio mondo”.
Nonostante i tanti libri e i riconoscimenti avuti, negli ultimi anni della sua vita, Strati ha dovuto affrontare difficoltà economiche e ostracismi letterari. Queste difficoltà insieme alla natura di scrittore schivo e riservato lo avevano costretto, tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, in una condizione di silenzio immeritato ma vissuto con grande dignità. Fortunatamente, nel dicembre 2009, grazie a una mobilitazione promossa dal Quotidiano della Calabria, Strati ottenne un sussidio statale, previsto dalla legge Bacchelli, per speciali meriti artistici che gli permise di interrompere un periodo di difficile solitudine e, in parte, riportò l’attenzione sui suoi romanzi.
Nella sua narrazione Strati ha raccontato persone e luoghi di un passato povero ma vitale, pieno di difficoltà ma con grandi aspirazioni di miglioramento sociale e civile. I libri di Saverio Strati sono senza dubbio ricordi vivi del nostro passato. Allo stesso tempo la sua letteratura, anche adesso che lui non può più testimoniarla, mantiene in sé valore e significato per quello che ci può ancora dire, nell’Italia della crisi del nuovo millennio e nel Mezzogiorno della mai risolta questione meridionale. Una letteratura che ci riserverà sorprese molto interessanti se i suoi tanti inediti saranno, come ci auguriamo, pubblicati. Una letteratura che merita di essere ancora letta e studiata per comprendere meglio noi stessi e il nostro presente di crisi e di difficoltà, ma anche per cercare dentro quelle storie e quelle speranze un’idea di cosa potremo essere nei decenni futuri. Saverio Strati ci ha lasciato, infatti, il racconto del nostro passato povero e allo stesso tempo ha anche saputo narrare (si pensi a romanzi come È il nostro turno, Gente in viaggio e L’uomo in fondo al pozzo) la strada per un futuro possibile che oggi non riusciamo a scorgere e che soprattutto abbiamo difficoltà a immaginare.