“Salva con nome” e “Prove di libertà” (“Lo specchio” Mondadori)
Recensioni di “Salva con nome” di Antonella Anedda e “Prove di libertà” di Stefano Dal Bianco, due libri della collana “Lo specchio” della Mondadori.
L’instancabile collana mondadoriana Lo specchio ci fa trovare in libreria dallo scorso 2012 due autori noti che ci offrono il frutto degli ultimi anni di lavoro, si tratta di Antonella Anedda e Stefano Dal Bianco. Entrambi impiegati in ambiti universitari, hanno esordito nei primi anni Novanta con le raccolte Residenze invernali e La bella mano. Oltre che poeti sono saggisti, curatori e traduttori.
Salva con nome (16,00 euro), è il quinto tempo della già nutrita bibliografia poetica aneddiana. Aria, Fuochi, Acque, Terra sono alcuni delle sezioni di un’opera che si snoda su se stessa facendo la treccia di pochi motivi essenziali retti in fondo dal nodo della morte, silenziosa compagna domestica dagli sguardi pieni d’abisso
Al nord sole e schiarite, temperatura in lieve aumento, piog-
ge anche di forte intensità all’interno. Il tempo di spegnere
la radio e fare mente locale su quale sia il mio luogo.
Una domanda a cui rispondo in fretta: sono in un vento che
annuncia un temporale, ascoltando una radio notturna che
parla di futuro.
Può bastare per il dubbio di esistere davvero
mentre l’albergo annega dentro un’autostrada
e i prati sono neri come gomme di camion.
Gli elementi in questi versi della Anedda sono lo scoperto correlativo oggettivo di istanze esistenziali che si intuiscono giunte al limite in atmosfere immobili e cariche di sottintesi. La particolare ispirazione da finale di film dell’autrice nasconde e mostra con poca pazienza, quasi con brutalità, il recto e il verso delle carte poste in mostra, una profonda dualità strozzata segna una versificazione a due teste (prosa e poesia, parola e immagine) attardata sul bivio la vita.
Se devo scrivere poesie ora che invecchio
voglio vederle scorrere, perdersi in altri corpi
prendere vita e nel frattempo splendere sulle cose vicine,
tenermi compagnia come le cipolle sbucciate nella luce
mentre preparo un brodo con gli occhiali offuscati
appunto un verso su un foglio e a volte mi ferisco
scambiando la penna col coltello.
Antonella Anedda sembra proporre al lettore, che è sottilmente invitato a leggere questi versi di fretta, lasciandoli cadere come semi, o rami secchi, sembra proporre il riordino della propria personalità poetica, alleggerita da ambizioni antiche e piuttosto docilmente rassegnata a una naturalità terrestre, originaria, alla pari con le proprie origini foriere di fatalità eterne. Tra i pochi puntelli letterari necessari a questa piccola circumnavigazione di parole, resta la grande ombra di Amelia Rosselli, che la Anedda accetta e vive come i poeti degli anni Trenta del Novecento accettavano e vivevano Montale. L’antenata Amelia, che ci piace ricordare nell’evocazione più forte e diretta di Notte di pace occidentale [nella morte di A. R. ndR.], è a questa altezza una scaglia del manto aneddiano, quella zona di pelle glabra che compare a tratti sul corpo dell’autrice come uno stigma di malattia.
Alla fine di questo percorso, che si tenta di ricalcare un sentiero ancestrale nella foresta della vita per il tramite delle parole e di poche sgranate immagini, resta un collage di volti da cimitero, un album di nomi che urlano in barba al tempo una propria vendetta che è anche civiltà e cultura, per riuscire a combattere con devozione filiale l’oblio:
Mi chiedo, osservando le foto più antiche, se tra quei nomi ci siano anche quelli le cui ossa andarono disperse nel trasporto dal vecchio cimitero a quello attuale, quando – come scrive un cronista del tempo – “migliaia di isolani sprofondarono nell’oblio” a causa della sepoltura usata allora.
Prove di libertà (18,00 euro) di Stefano Dal Bianco propone una serie di versi che possono sembrare a tutta prima pallidi e poco definiti. Sono i momenti insignificanti della quotidianità, i piccoli sensi di colpa del fumatore, le scritte commerciali, i malori di una mattina. Questo modo diaristico di abbassare la lirica fino a farla aderire al suolo, a farne una cosa diversa per cui ci si potrebbe chiedere per quale motivo il Dal Bianco scelga questa forma e non altre, ebbene questo modo di scrivere versi crea un ibrido quasi perfetto, dopo anni di tentativi e semi-riuscite, fra il tono della prosa, del privato e quello del lirico-universale. Si vedano gli attacchi di due poesie della sezione Cinismi e cattiverie:
Lo so che poco vi interesserà,
perché saranno fatti in apparenza solo miei,
per giunta scritti,
per giunta scritti in versi,
ma devo raccontare un’avventura personale […]
Questa mattina stavo male:
una specie di nausea incorrotta, indipendente,
che mi ha costretto a ritornare a letto con un senso
di voler stare al caldo, un po’ protetto […]
Viene espressa in queste due prime parti una sfiducia storica nei confronti del mezzo, e pure questa malizia mefistofelica a proposito di cosa può e cosa non può (più?) la poesia è l’aspetto più vero e interessante del dettato dalbiancano. Ne è il centro. La sfiducia nel mezzo non è affatto nichilismo, è un consapevole e realistico abbassamento del tiro dal sapore a tratti crepuscolare. Per Dal Bianco la meraviglia continua a essere una inaspettata visita che fa capolino dal volto delle cose, la sua non è rinuncia né tanto meno parodia. Piuttosto il volto nascosto di questi versi è quello di un cinismo feroce e lucido. Si veda l’attacco di Autolavaggio:
Forse dovremmo bere molto.
Forse dovremmo respirare meglio.
Io morirò per qualche cosa di circolatorio.
Tu morirai per qualche cosa di cardiaco.
Tutto normale. Le tubature e la pompa.
Ma questo senso del destino non è freddo come appare, è la faccia rassegnata di un insulto rabbioso rivolto all’ordine e all’ordinatore, come, due pagine dopo, in Arcobaleno:
Qui davanti alla finestra bellissimo
c’è un arcobaleno ogni tre giorni
che canta la gloria di Dio, e io
che me ne faccio?
La bellezza sembra un inutile ostacolo al giusto funzionamento della macchina cosmica, un generatore di illusioni e sofferenza, una fabbrica di dolore. Ed è dal punto più basso e colloquiale possibile che Dal Bianco decide di puntare il dito contro questo dolore.
Le ultime pagine del libro lasciano il posto a un embrione di speranza, di rinascita e vita sotto il manto gelido della neve. Questo autore trova il suo nume tutelare in Andrea Zanzotto, poeta che gli è congeniale nelle consonanze paesaggistiche e nelle rigide istanze morali. Lo scenario offerto infine è di una sottigliezza sostanziale, un invito alla marca di cambiamento che dovrebbe per necessità risultare una miglioria:
Interrogare negando a priori l’eventualità di una risposta positiva è un vizio da poveretti. Interrogarsi sul come delle cose evitando il perché è un vizio da meccanici. Come una cosa funzione non può andare disgiunto dal suo scopo. Perché noi sempre ci spacchiamo la testa sulla funzione e mai sulla finalità? Per carità, per amore, per grazia di Dio diciamolo a tutti: fermiamoci, entriamo di notte nel bosco e ascoltiamo.
Anedda e Dal Bianco, sono avvicinati da alcuni punti comuni, come la discendenza da un capostipite novecentesco del quale sono arrivati a riconoscere quasi esclusivamente l’ultima consanguineità. Intrecciano nei loro versi pochi semplici temi che sono anche potentissimi argomenti di riflessione e antiriflessione, propongono un modello in entrambi i casi nuovo, seppure legato indistricabilmente con la tradizione.
Salva con nome e Prove di libertà si leggono entrambi come non romanzi, sono altro, lirica elegiaca, prosastica, epica. Hanno in sé il germe limpido di una cultura ieri predominante e oggi subalterna, della quale comunque non possiamo né vogliamo dirci svincolati.