René Girard interprete di Stendhal
Questo articolo si ispira alla teoria del “desiderio mediato” o “desiderio secondo l’altro” che lo studioso francese René Girard espone nel suo romanzo Menzogna romantica e verità romanzesca, pubblicato in Francia nel 1961 e in Italia nel 1965. In quest’opera Girard concentra la sua analisi su vari autori, quasi tutti francesi e quasi tutti otto-novecenteschi (eccezion fatta per Cervantes e Dostoevskij): Flaubert, Proust e Stendhal. Quest’ultimo ha un’importanza decisiva nella genesi del pensiero girardiano: l’autore dedica infatti a Il rosso e il nero un’analisi approfondita nel corso dei vari capitoli, e di tanto in tanto si richiama anche ad altri saggi e romanzi dello stesso scrittore quali Armance, Dell’amore, Cronache italiane, La certosa di Parma.
Girard parte dal presupposto che il nostro desiderio sia sempre imitativo. In questo desiderio non vi è nulla di autentico né spontaneo, proprio perché si tratta in realtà dell’imitazione di un modello, di una persona che per noi funge da mediatore suscitando sentimenti contrastanti e contraddittori, di venerazione e odio impotente, di disprezzo e mal celata ammirazione. Il mediatore è carico di prestigio ai nostri occhi, ma al tempo stesso è fonte delle più profonde e laceranti gelosie.
La nostra relazione con l’oggetto desiderato non è mai indipendente da questo mediatore. Come spiegare altrimenti la cocente delusione con cui ci si scontra una volta che l’oggetto del desiderio è diventato nostro? Amore e odio si infrangono contro un mediatore che appare immerso in un’aura di divina indifferenza. Quando, però, le due sfere di appartenenza di mediatore e soggetto si avvicinano, ecco che i confini si fanno sempre più indistinti; non è l’oggetto ad essere di per sé desiderabile, è il mediatore che, trasfigurato dalla fervida immaginazione del soggetto, lo rende attraente. Tuttavia, nel momento stesso in cui il mondo suggerito dall’altro si apre al desiderio che l’assedia, la totalità si rivela illusoria. Il soggetto non riesce a liberarsi dal male metafisico nemmeno dopo aver sperimentato su di sé la delusione del fallimento. Non ammetterà mai l’insuccesso e le alternative che gli restano sono due: cambiare oggetto o cambiare mediatore. La sua scelta dipenderà proprio dalla vicinanza del mediatore stesso rispetto al soggetto. Questa vicinanza, fisica e psicologica insieme, finirà per essere conflittuale e per dar luogo ad una sorta di mediazione simmetrica: il soggetto diventerà a sua volta il modello del proprio mediatore. Questo accade perché il desiderio mimetico è estremamente contagioso.
Troviamo un esempio significativo di questa dinamica proprio nelle prime righe de Il Rosso e il Nero: Monsieur de Rênal, sindaco di Verrières, vuole assumere Julien Sorel come precettore per i propri figli. Ma la sua unica preoccupazione è quella di precedere il suo rivale Valenod -che in realtà non ha la minima intenzione, almeno all’inizio, di fare di Julien un precettore- e concludere le trattative prima di lui. Una risposta scaltra e ambigua del carpentiere Sorel, padre di Julien, basta a radicare in lui questa convinzione, a creare per Valenod un desiderio immaginario che lui non prova, ma che -reale o no, poco importa- è sufficientemente intenso per poter essere imitato da Rênal. Passa il tempo, e Valenod propone a Julien di entrare al suo servizio: adesso è lui ad imitare il desiderio di Rênal. Questi crede di non ingannarsi quando vede in tutto ciò la dimostrazione che la sua intuizione iniziale era esatta. La mimesi giunge a un punto tale per cui l’oggetto del desiderio addirittura scompare: più nessuno, adesso, è interessato a Julien; Valenod e Rênal sono invischiati in un accumularsi di desideri e risentimenti che si riflettono l’un l’altro come in un gioco di specchi. Nessuno resta immune dal male metafisico: se il mediatore di Rênal è Valenod, quello di Julien è senza dubbio Napoleone; ma Julien Sorel si preoccupa di celare accuratamente il suo proposito di imitazione e i suoi mediatori, a tal punto che un lettore poco attento potrebbe non avvedersi di quanto accentuata sia la sua adorazione per il valoroso condottiero o di quanto il suo desiderio per Mathilde de la Mole sia accresciuto dall’indifferenza di costei.
Stendhal chiama “vanità” ogni tentativo di emulazione: il vanitoso, incapace di avere desideri propri, deve prenderli in prestito da altri, sprofondando continuamente nell’infelicità. Il desiderio mimetico funziona perfettamente anche quando è applicato alla casistica amorosa: i personaggi stendhaliani riescono nei loro intenti sempre e solo attraverso la menzogna e la finzione. È importante simulare indifferenza nei confronti del mediatore e dell’essere desiderato, poiché questa indifferenza serve non solo a scongiurare la rivalità di possibili avversari, ma anche a far apparire il soggetto come un eroe dai tratti quasi ascetici. Questa dinamica è ben presente in Stendhal e viene definita da Girard “ascesi in funzione del desiderio”. Julien, ad un certo punto, inizia a fingere indifferenza nei confronti di Mathilde, e solo in quell’istante la fanciulla cadrà ai suoi piedi. È lo stesso meccanismo contagioso che abbiamo trovato nella coppia Valenod-Rênal, identico in entrambi i casi. Rivelare il proprio desiderio è uno sbaglio imperdonabile in amore, tant’è vero che la doppia mediazione regala la vittoria a chi, fra i due amanti, sa meglio mentire. Julien espierà la spontaneità di un momento con un accumularsi di ipocrisie. Tutti mentono, nell’universo stendhaliano: solo l’eroe di passione, che Girard riconosce in Fabrizio del Dongo de La certosa di Parma, va dritto verso l’oggetto del suo desiderio senza preoccuparsi degli altri, smascherando illusioni e vanità.
Non vi è quindi nessuna via di riscatto possibile, nessuna salvezza, nessuna liberazione dalla schiavitù generata dall’imitazione? Sì: secondo Girard, l’unica autenticità possibile, paradossalmente, consiste proprio nel riconoscerci parte del meccanismo mimetico. È la stessa conclusione cui giungono tutti i grandi romanzieri: solo la rinuncia, il disinganno, il distacco dalle contingenze del mondo permettono l’ascesi e l’ascesa dell’eroe; è la soppressione dell’orgoglio e dell’amor proprio, è il trionfo dell’umiltà, il dissolversi di un’illusione. In questo senso, la prigione di Julien Sorel non è molto dissimile dalla lontananza dal mondo esterno che verrà ricercata da Proust. Solo la solitudine e il silenzio della prigione, poco prima della sua condanna a morte, permettono a Julien di distaccarsi dalle contingenze del mondo, di rinunciare al proprio orgoglio. Tralasciando la sua passione velenosa per Mathilde, abbandonandosi finalmente all’amore per Madame de Rênal, rinunciando persino a difendersi, Julien Sorel sembra contraddire completamente le sue idee di un tempo. In realtà, ha già subito la sua conversione.
Girard si serve dell’espressione “romanziere-Edipo”: il romanziere smaschera il carattere illusorio del desiderio e la sua natura imitativa in se stesso e nei suoi personaggi, così come, nella mitologia, il figlio di Laio scopriva in se stesso il colpevole. Tutti i grandi scrittori, costantemente interessati allo studio delle relazioni umane, arrivano, alla fine del loro romanzo, ad una conversione: la riconciliazione romanzesca serve a superare il desiderio metafisico; il protagonista non scorge più un Dio nel mediatore, ma vi riconosce un proprio simile.