"Una profonda invidia per la musica" di Giorgio Manganelli

“Una profonda invidia per la musica” di Giorgio Manganelli

Recensione di “Una profonda invidia per la musica” (L’Orma editore) di Giorgio Manganelli.

Rispondendo ad alcune domande relative ai meccanismi, ai significati e alle strutture proprie della letteratura nel corso di un’intervista rilasciata a Carlo Rafele sul finire degli anni settanta, Giorgio Manganelli spiega così la sua posizione: «Il testo letterario non vuole né esprimere, né comunicare; vuole essere». Questo allontanarsi, o alienarsi, da una dimensione puramente semantica a favore di una condizione della letteratura in quanto tale, in quanto linguaggio, forma e suono, è uno dei punti cruciale del modo in cui Manganelli vive il suo rapporto con la letteratura e la scrittura. Un rapporto complesso, più difficile di quanto la sua straordinaria capacità di padroneggiare l’italiano e di costruire audaci labirinti linguistici possa far immaginare. Un rapporto in cui vengono completamente stravolte o ignorate le tradizionali possibilità offerte dalla storia letteraria a favore di uno sperimentalismo che pur voltandosi al passato, specie per quanto riguarda il lessico, mette continuamente in crisi il lettore con la sua lontananza dagli schemi convenzionali. La stessa figura dell’autore, secondo Manganelli, andrebbe rivista poiché «non sa, non deve sapere sul suo lavoro neppure quanto ne sanno gli altri», come spiega nel saggio eponimo posto a conclusione di quel suo fondamentale e celeberrimo libro del 1967 emblematicamente intitolato La letteratura come menzogna.

La guerra tra le parole e il loro significato è un conflitto al quale il Manga ha partecipato in prima persona, non senza una punta di gelosia nei confronti di quell’arte che, per le proprie peculiarità, è estranea ai discorsi sul senso, in quanto pura struttura: la musica. Manganelli fu un grande appassionato di musica, e di questo entusiasmo diede testimonianza partecipando, nel luglio del 1980, ad una serie di incontri nell’ambito di una trasmissione radiofonica di Radio 3 condotta da Paolo Terni. Le cinque conversazioni di cui Terni e Manganelli furono protagonisti, pubblicate una prima volta dalla Sellerio nel 2001, sono adesso riproposte da L’Orma Editore nel volume Una profonda invidia per la musica, curato da Andrea Cortellessa per la collana Fuori Formato. Rispetto alla precedente, questa nuova edizione arricchisce la semplice trascrizione del dialogo radiofonico con una serie di contributi a firma di Paolo Terni, un saggio finale di Andrea Cortellessa, cinque pezzi di argomento musicale scritti da Manganelli per dei quotidiani tra gli anni settanta e ottanta, e infine un cd audio contenente le tracce originali della trasmissione del 1980, cui è aggiunta una suggestiva bonus track nella quale la voce di Marisa Fabbri interpreta un pezzo di Rumori e voci, il libro più esplicitamente musicale di Manganelli.

Oltre a rievocare i primi approcci e i passaggi che portarono Manganelli a diventare un ascoltatore maniacale, ciò che emerge con maggiore interesse dagli scambi di battute con Terni è il modo in cui la musica si intreccia al suo essere, o fingere di essere, uno scrittore; come certe strutture ed elementi propri del linguaggio musicale assumano un ruolo tutt’altro che secondario nel cervello dell’autore di Hilarotragoedia in merito alla sua attività. Non si tratta di trasportare sul piano della letteratura le tecniche della musica – come pure Manganelli ammette di aver fatto in Nuovo commento, tentando di percorrere la strada della variazione musicale – ma di assorbire a livello cerebrale le componenti fondamentali di un’arte per infonderle in un’altra completamente diversa, “minacciata” dal significato. E proprio qui, attorno a questa minaccia ruota il fulcro del discorso di Manganelli, recuperato anche nell’ultimo dei cinque pezzi contenuti nel libro: l’invidia per la musica di cui si parlava prima è l’invidia per una posizione più libera poiché lo scrittore deve fare costantemente i conti con l’aspetto semantico delle parole per poi disfarsene nello stesso momento, senza naturalmente sacrificare le strutture, ovvero le parole stesse: «è l’eterna ambiguità della letteratura che non si sa mai se vuole o non vuole dire niente. Lo scrittore sa benissimo che la letteratura non vuole dire niente: ha ben altro da dire che non dire… E questa condizione il letterato la trova nella musica realizzata con una condizione particolarmente felice».

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