Poesia e ontologia in Gëzim Hajdari
Nûr è forse l’opera più complessa e di maggiori ambizioni di Gëzim Hajdari, quella che riprende e trasfigura gli elementi principali della poesia hajdariana attraverso una ridistribuzione drammatica dell’io nella varietà dei protagonisti scenici.
Verità ed essere, e loro relative semantizzazioni, fanno da sfondo al discorso poetico di Hajdari, Occorre qui, in via preliminare, abbozzare la posizione di Hajdari su «verità» ed «essere». La verità, nella tradizione metafisica, è stata sempre intesa come il rispecchiamento di un dato, l’adeguazione alla presenzialità dell’essere: da una parte l’essere nella sua già data, già completa presenza, e dall’altra il pensiero che tenta di rispecchiarlo, e che tuttavia, in questo rispecchiamento non aggiunge nulla all’essere. Hajdari raccogliendo suggestioni heideggeriane, nicciane e gadameriane, intende la verità come «evento», come l’aprirsi di orizzonti storici entro cui gli eventi vengono all’essere; e, come tale, essa deve accadere e non è nulla al di fuori o al di sopra di tale accadere.
Nûr è un poema drammatico. La prima scena si apre con la visione di una stanza dove il protagonista cerca rifugio, braccato dall’Inquisizione. L’autore opera qui una sorta di duplicazione e di giustapposizione tra la propria personale vicenda biografica, quella del poeta esiliato in Italia, con quella del protagonista del poema, anch’egli si chiama Gëzim, anch’egli intende adempiere alla promessa, alla Besa (patto d’onore) stipulata con la sua gente. Egli ritorna come Costantino, il Cavaliere della Morte, protagonista di un celebre canto popolare albanese. L’eresia del protagonista, Gëzim è tragica perché è l’esecuzione, la conseguenza di quel codice di leggi non scritte che è il Kanun. L‘eresia di Gëzim è tragica. Il protagonista sale sulla croce di Cristo «nel giorno Santo», a Roma, in segno di amicizia per annunciare una nuova alleanza che ponga fine alle guerre per una convivenza pacifica tra i rispettivi popoli. Invece il protagonista viene accusato di eresia e condannato al rogo il venerdì santo in Campo de’ Fiori. Gëzim deve morire come Giordano Bruno perché si rifiuta di abiurare. Il protagonista del dramma non comprende il perché della condanna inflitta dal Tribunale dell’Inquisizione, il suo era e voleva essere un messaggio d’amore per Cristo, non capisce come possa suonare blasfemo che anche solo per dieci minuti un musulmano venga crocifisso sulla croce. La Chiesa non può accettare tale gesto, lo intende come blasfemia. Al tempo stesso Gëzim non capisce come la Chiesa non capisca il suo punto di vista. Come Gëzim anche Nûr, la madre, è fedele ai valori atavici della terra di Darsìa. In lei rivivono i sette figli morti in battaglia, nelle varie guerre per difendere Darsìa. La divaricazione che si apre come un baratro tra Nur e Gëzim è data dalla loro diversa interpretazione al patto di fedeltà che ha nome besa.
Nûr invita il figlio ad abiurare l’eresia in quanto lesiva delle leggi dell’ospitalità. Il figlio invece intende quel patto di fedeltà alla besa come una nuova alleanza, una nuova legge dell’onore e dell’ospitalità. La legge dell’ospitalità che per Gëzim ha un significato, per l’Inquisizione ne ha uno opposto. Il protagonista è un seguace del Kanun, è un uomo libero, eguale agli altri, il suo principio morale è la fedeltà al patto, alla besa che si istituisce con l’amico e/o con il nemico.
Nûr (che si offre come una straordinaria rielaborazione, riscrittura e restituzione in chiave epica e tragica del patrimonio orale albanese, del quale Hajdari raccoglie le narrazioni mitiche e storiche, insieme ai loro valori etici codificati e trasmessi dal Kanun, il codice d’onore albanese o “Codice della Montagna” attribuito Lekë Dukagjini, un principe del XV secolo (A. Gazzoni), finalmente si aggiunge alla grande tradizione del teatro classico europeo come anello mancante fino ad oggi. È la prima piece teatrale albanese di grande interesse che si propone alle scene dei teatri drammatici dell’Occidente e non solo.
La «verità» è, in altri termini, la posizione di un mondo, di un orizzonte di significati entro cui si può dare vita, storia, cultura, sviluppo di un popolo. La verità coincide, niccianamente, con le condizioni di affermazione della volontà di potenza, dispiegamento di senso e di mondo. L’«essere» ha struttura eventuale, e non già presenziale: è il declinarsi delle sue incarnazioni, cioè delle epoche, dei mondi in cui, ad un tempo, si propone e si ritrae dando vita e alimento agli enti che popolano questi mondi Il nucleo del conflitto tragico è che i valori fondamentali del Kanun e della besa non significano nulla per la Chiesa di Roma, esse non sono nulla al di fuori del declinarsi di un altro «codice», quello del cristianesimo trionfante, che non riconosce altro «ente» al di fuori dei propri valori.
Il «mondo» di Eresia e besa indica l’orizzonte, l’ordine di apertura di una prospettiva entro la quale si si sviluppano i contrasti drammatici tra i tre personali personaggi:Nûr, Gëzim e l’Inquisitore. I personaggi vivono e agiscono nel «mondo» come enti che hanno un essere, e l’essere si dà, si mostra pur ritraendosi, sempre e solo nel «mondo». Il dramma rappresenta la cornice entro i quali gli enti-personaggi prendono dimora. Ciò che avviene avviene entro le leggi dell’accadere della mondità.
E queste leggi si chiamano: il Kanun, ovvero il codice d’onore albanese che prende forma nel medioevo tra il 1300 e il 1400 ed è tuttora in vigore nelle zone a nord dell’Albania.
Fatte queste precisazioni introduttive possiamo passare ad affrontare il corpo del testo. Il filosofo domanderà: in che senso questa poesia ha che fare con l’ontologia? Per ora basti dire questo: la poesia è ontologia perché è apertura all’essere, perché il suo radicamento non è limitato alla coscienza dell’uomo ma a qualcosa che la trascende, l’essere appunto. Problema sarà definire i caratteri di questa apertura all’essere e dell’essere stesso.
È blasfemia per la Chiesa l’atto di farsi crocifiggere, anche se per pochi minuti, sulla croce. Di qui l’accusa di eresia al protagonista. Le conseguenze di questa accusa saranno tragiche perché Gëzim non accetta tale interpretazione, il suo vuole essere semplicemente un atto di fedeltà che amplifica i valori di ospitalità della besa. Il punto tragico tra Gëzim e Nûr si rivela nella loro differente fedeltà alla besa. Ecco l’auto difesa del figlio dinanzi alla madre:
tuo figlio ubbidiente non ha mai commesso
nessun peccato ed eresia al mondo
che possa farti disonorare l’onore della fronte
davanti al Kanun delle Montagne Maledette
e ai prodi valorosi di Darsìa.
Coi kaùrr (i cristiani) ed altri vicini oltre il mare nero,
fratelli uniti nel sangue e nello spirito,
ho voluto sempre la pace e l’amicizia nei secoli.
(…) Non sono stato io lo sfrontato codardo
che ha commesso la terribile onta,
ma i vicini romani con la Santa Chiesa,
che non hanno mantenuto la besa d’uomo
e hanno voluto bruciare l’ospite in casa loro.
Il secondo atto del dramma si apre sull’aspro paesaggio di Darsìa. Doruntina, la sorella di Gezim, è stata data in sposa in Boemia con la promessa (la besa) di riportare Doruntina in patria ogniqualvolta Nur lo richieda. Ma adesso il problema è: adesso che Gëzim è morto chi ricondurrà in Patria Doruntina? Ed ecco il colpo di genio del poeta: il protagonista del dramma riappare, risorto dalla morte, nel mondo. Le due estremità, la vita e la morte si toccano, l’impossibile diventa possibile. L’apparizione spettrale di Gëzim sancisce il patto segreto tra la vita e la morte, supera in un certo senso la morte. È il prolungamento della besa oltre la morte; la besa va adempiuta. La richiesta della madre Nûr va adempiuta.
Viene qui in soccorso di Gëzim Hajdari il patrimonio della tradizione orale dell’epica albanese coi suoi canti popolari, con i suoi personaggi posti in un tempo altro. Hajdari recupera l’oralità dell’epica mettendosi sulla stessa lunghezza d’onda dei cantori albanesi e costruisce un’opera collettiva, nazionale e popolare, dove la parola è «efficace» e «significativa» e quindi collettiva, valore di una comunità, sottraendosi così al privatismo dei racconti dei «privati» del mondo dell’Occidente, la parola poetica di Gëzim Hajdari fa sua la più grande sfida alla decadenza delle Grandi Narrazioni e alla impossibilità di un Dramma corale-statuario nel senso antico e arcaico del termine.
Ecco le ragioni che hanno determinato questo inscindibile legame tra il diritto del Kanun e la poesia di Hajdari, la necessità di assicurare alla poesia un carattere ontologico: l’arte come il luogo in cui la verità è raggiunta o istituita.
Perché gli artisti sentono il bisogno, quasi al punto di soffocare il loro fare artistico, di munirsi di un apparato epistemologico che li protegga e li giustifichi? Una prima spiegazione potrebbe essere che l’artista, mutato il rapporto con il proprio pubblico nella società industriale e di massa, e avendo perso un contatto immediato con i committenti, tenta di recuperare una propria visibilità rivendicando il diritto alla sua esistenza; una seconda spiegazione potrebbe essere che l’artista, trovandosi di fronte all’impellenza, quasi ossessione, di produrre un‘opera originale, non veda altro mezzo che la fondazione di un linguaggio completamente nuovo che non si rifaccia a nessuna tradizione precedente, un linguaggio che per dirsi tale ha bisogno di un quadro teorico-epistemologico di natura, daccapo, giustificativa. A parere di chi scrive queste spiegazioni non colgono l’aspetto decisivo per una considerazione elementare: le opere d’arte contemporanea, per essere fruite, hanno bisogno di un cappello critico che le introduca e le spieghi: il linguaggio dell’arte necessita della mediazione del linguaggio-parola, non è più autosufficiente: le poetiche aprono proprio quell’ambito di comprensibilità che dischiude l’intelligibilità del linguaggio dell’opera d’arte e colma la sua insufficienza comunicativa. Sorge un’altra domanda: perché il linguaggio dell’arte deve essere supportato dal linguaggio-parola? La risposta a questa domanda ci porterebbe direttamente alla discussione sulla fruizione artistica; per quel che fin qui interessa occorre notare che l’artista, nel Novecento è portato a farsi epistemologo di se stesso: il fare artistico sembra così legarsi alla giustificazione di se stesso.
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L’opera di Hajdari può essere, giudicata proprio in riferimento alla legge che porta con sé: se è ciò che la sua legge impone che sia, essa sarà giudicata bella. La bellezza è quindi la riuscita, la conformità dell’opera alla legge.
I concetti di novità come istituzione di una nuova legge e di bellezza come riuscita, rinviano entrambi al radicamento ontologico dell’opera d’arte. L’opera d’arte, in quanto istituente una nuove legge, sarà atto fondativo di un mondo, di una comunità, non come totalità del dato, ma come orizzonte di senso entro cui gli enti sono ordinati ed hanno significato: ed è proprio la legge istituita a garantire la legalità del nuovo mondo. La novità dell’opera diventa così l’originarietà e la riconoscibilità del nuovo mondo, che non ha nulla alle sue spalle perché è a partire da esso che si costituiscono tutte le relazioni, a cominciare da quelle linguistiche tra segno e significato. Se la legge è la struttura di legalità del nuovo mondo, l’opera d’arte che è conforme alla legge, rappresenta il primo ente di questo mondo. Con grande coraggio Hajdari ha voluto riscrivere il poema del linguaggio fondativo del nuovo mondo a far luogo dal mondo antico, da questo prendendo le leggi essenziali che lo costituivano.
L’interpretazione critica si è sempre mossa nella continuità con la categoria dell’Aufhebung, cioè della spiegazione-riduzione dell’opera d’arte a qualcosa che la preceda o la accompagni: si può ridurre l’opera alla situazione storico-economico-sociale in cui si colloca, alla situazione psicologica dell’artista, oppure si può leggerla badando esclusivamente alle sue strutture stilistiche. In entrambi i casi, e per la critica che riduce l’opera a uno sfondo che la precede e per quella stilistica, l’opera è un punto di arrivo, una formalizzazione di fatti economici, psicologici, storici o tecnico-linguistici. L’opera è così sistemata, demitizzata, razionalizzata, è ridotta ad un evento del passato: sia questo passato la situazione storica o l’orizzonto tecnico formale che l’opera si impegna ad esprimere al massimo grado.
Gianni Vattimo ha proposto invece un approccio all’oggetto che lo includa in un orizzonte più ampio. È posto così il problema di un’ermeneutica che si metta a disposizione del suo oggetto, che lo lasci essere. Va ribaltato, secondo Vattimo, sulla scia di Heidegger, il rapporto tra opera e lettore di essa: il lettore deve stare dentro l’opera, deve provare ad abitarvi, e non viceversa l’opera abitare nella coscienza fruente del lettore. Proprio perché l’opera è istituente un mondo, in tale nuovo mondo il lettore deve provare a vivere. Esempi di questo vivere ed abitare del lettore e della critica nell’opera possiamo ritrovarli nell’atteggiamento della cultura occidentale nei confronti della Bibbia, tanto che «la storia dell’Occidente – scrive Vattimo – è la storia delle interpretazioni della Bibbia». Anche per quest’opera di Gëzim Hajdari, interpretarla significa approfondire le direzioni di significato che il mondo che essa istituisce ci offre: essa crea il mondo, noi, suoi interpreti, dobbiamo viverlo, costruirlo, svilupparlo, prendercene cura, abitarlo appunto. L’opera, quindi, più che costituire un punto di arrivo, è un punto di partenza per nuove costruzioni-abitazioni: è rivolta al futuro nei suoi sviluppi, e segna, in quanto atto istitutivo di mondo, l’escaton, l’orizzonte confinale di questi sviluppi.
Come può l’opera essere intesa quale fondazione di un mondo e come si può pretendere che il compito del critico sia dar voce alla necessità del suo abitarlo? Non è questo statuto dell’opera una mitizzazione dell’opera? Certo, non tutte quelle che consideriamo opere d’arte posso essere aperture di nuovi mondi, ma ciò non toglie che la peculiarità dell’opera d’arte, il suo carattere regolativo sia proprio la istituzione di nuovi mondi.