Poesia / Appunti sull'ultimo Gelman in traduzione italiana # 1

Poesia / Appunti sull’ultimo Gelman in traduzione italiana # 1

Se si pensa ad una categoria del discorso poetico che inesorabilmente pare ritrovarsi e ricorrere negli autori che più sembrano vicini al nostro tempo, non credo si possa evitare di focalizzare quella di una poesia dell’Esilio.

La sensibilità che questa evidenzia può sembrare forse  mossa da un atteggiamento di “condiscendenza” ad un fenomeno sociale e culturale assai vasto, quasi opportunisticamente attenta ad intercettare le fascinazioni esotiche che la nostra epoca incontra, oltre ad una doverosissima condivisione umana e civica verso le vittime patenti questa enorme aberrazione; senza tralasciare poi le reali necessità di un mondo che evolve in una direzione unidimensionale dello spazio antropico sempre più sovrapposto e condiviso.

In realtà a me pare che l’Esilio, che pure alcuni tra i più Grandi nelle turbolenze del Novecento significativamente hanno patito e tuttora patiscono, sia non propriamente una “categoria” poetica, bensì una sotto-categoria: e più esattamente una sotto-categoria della estraniazione intellettuale e civile che coglie il rovello zenitale del discorso poetico e della parola poetica stessa: specchi sonori di una non assimilabilità della pur certa appartenenza del Poeta al suo tempo, alla “vita nova” (senz’altro l’allusione dantesca non apparirà pedante, tanto più ricordando quale importanza il Sommo Poeta attribuì alla elaborazione fondante di un Linguaggio Poetico in una condizione anche per lui di Esilio e patimento tanto poetico quanto linguistico,  pur rimanendo di fatto contiguo al suo linguaggio d’uso e di materna memoria, fondando un nuovo idioma capace di veicolare la realtà: quindi in qualche modo ri- e proto- nominandola, ri- e proto- definendola e fondandola; ma questa allusione meriterebbe indubbiamente ben più attenta attenzione ermeneutica per l’immenso contributo che questa “precipuità” del pensiero e della poetica di Dante hanno avuto per lo sviluppo della poesia e dell’arte nel mondo) eppure continua e ciclica che insegue e sfugge ciascun uomo pur paradossalmente appartenendogli.

È per un caso fortuito che, un giorno, mi sono imbattuta in un minuscolo libercolo di un gigante del nostro tempo, Juan Gelman, dal titolo Nel rovescio del mondo (Juan Gelman, Interlinea edizioni, 2003), che con una melodica concreta come il pane e aspra come il sasso, seduce instancabilmente oltre il mirabolante volo della Parola Cerebrale, conducendo nella grandezza semantica delle cose che atterrano come segni sull’intelletto, costringendo al ripensamento la palestra della speculazione, il lustro sonoro e ginnasiale cui gli studi e le pure speculazioni di scuola talvolta ci inducono.

Il libriccino voleva tributare un profilo del Poeta vincitore del Premio Lerici 2002 attraverso un antologico florilegio di due sillogi di ben diversa corposità: Lettera a mia madre (Guanda, 1999) e Valer la pena (Guanda, 2007), oltre all’inedito Nobiltà; a queste due Opere poetiche si è aggiunto nel 2006, per la stessa InterLinea, un libro straordinariamente significativo dal titolo Doveri dell’Esilio; a questa scarna bibliografia tradotta del Nostro si aggiungerà poi per completezza l’ormai introvabile Gotàn (Guanda, 1980).

Tra il 2011 ed il 2012 infine, sono usciti nel nostro Paese due raccolte del poeta argentino che precedono cronologicamente tutte le opere di Gelman ora reperibili in Italiano rivelandone in parte alcuni archetipi e la genesi creativa:  com/posizioni (Rayuela edizioni, Milano, 2011 ), in cui il Poeta inscrive versi propri in traduzioni/riscritture essenzialmente di grandi poeti medievali spagnoli di origine araba ed ebraica che – attraverso l’esperienza dell’Esilio e dell’eiezione dalla propria cultura e dalla propria terra di origine – hanno di fatto fondato il pensiero e la poesia d’Europa, in special modo provenzale prima e siciliana poi: in una parola mediterranea; e sotto (Kolibris edizioni, 2012), nella quale la scelta del sefardita, dialetto tradizionale dei marrani spagnoli, riecheggia l’esperienza dell’Esilio di Gelman: dotto ebreo non ortodosso fuoriuscito dalla sua patria geografica oltre che, in questo artificio, linguistica.

Si tratta di una diade nella quale appare evidente la eco della elaborazione della prima delle due sillogi nella concezione e realizzazione intellettuale della seconda, tanto più che nella Chiosa introduttiva a quest’ultimo lavoro, egli vi fa chiaramente riferimento come si trattasse di una pulsione collaterale “di rimando” emersa negli anni a cavallo tra l’83 e l’85, quando si applicava agli studi di preparazione ancora inerenti la prima.

In questi interessanti ultimi (primi!) lavori editi nel nostro Paese, che definirei studi, una profonda vena di mistero linguistico emerge come se – nel crogiuolo in-aperto e vastissimo della Lingua Interiore del Poeta – potesse esistere un luogo, uno spazio di congiuntura temporale della diversità come limite esistenziale della Poesia: appaiono tratteggiati percorsi nei quali il Poeta incontra l’alterità dell’Esilio politico all’Esilio linguistico, legandosi ed integrandosi nel percorso di azzeramento della distanza tra spagnolo e sefardita non meno che in quello tra i marrani “trobatori” di Castiglia del XVI secolo spagnolo, e il Poeta in tanto in quanto l’esiliato.

Sono esercizi altissimi, che però non pare credibile intendano ripercorrere soltanto l’antico strale del misconoscimento dalla propria terra patita dagli autori originali, quanto – credo – uno ctonio percorso dell’io poetico che con matrice totalmente moderna ricalca un altrui testo autorale di scrittura come tradimento della propria identità pregressa e, ad un tempo, ritrovamento della propria identità complessa.

Non apparirà forse troppo inopportuno sottolineare nuovamente come la poesia sefardita e molti degli autori selezionati tra i tanti possibili per questa antologica “ri/composizione” siano alla base della diffusione e della formazione del pensiero filosofico e poetico medievale mediterraneo, quindi europeo, quindi occidentale tout court, quasi a sottolinearne la matrice che vettorialmente muove dallo strappo personale patito dagli autori alla genesi di un nuovo pensiero, sintetico e rifondativo di identità ospiti. Ora è forse inevitabile raffrontare questa poiesi identitaria e culturale della migrazione propria dell’esule che in sé   incamera ogni accidente di mutazione del proprio retroterra culturale, con la condizione poetica nell’intero complesso delle sue specificità.

Il Poeta è infatti soggetto ed oggetto continuo di uno straniamento del proprio io – che pure percepisce il proprio tempo e la propria identità – capace di assimilare una visione che è Mondo nel laboratorio inesausto del Verso, della Parola, e della Lingua poetica.

Leggiamo infatti in Doveri dell’Esilio (cit.), in una composizione con datazione coeva ad entrambe le recenti edizioni:

 V

dei doveri dell’esilio:
non dimenticare l’esilio
combattere la lingua che combatte l’esilio
non dimenticare l’esilio/ossia la terra
ossia la patria o latticello o fazzoletto
dove vibravamo/ dove bimbavamo
non dimenticare le ragioni dell’esilio
la dittatura militare/ gli errori
che commettemmo per te/ contro di te
terra di cui siamo ed eri
ai nostri piedi/ come alba distesa
e tu/ cuoricino che guardi
a ogni domani come oblio
non ti dimenticare di dimenticare di dimenticarti

Roma, 9-5-80

Questo flusso contiguo tra “esternalità costretta” dell’Esilio, e creazione fondativa del reale appare definitivamente stupefacente, soprattutto quando si soppesi  più da presso la constatazione che da un’azione intellettuale tanto astratta, elegantemente cerebrale, nasca – nell’Esilio Poetico – una scrittura delle cose reificata che,trasversalmente a tutta la poesia della migrazione, potremmo definire come neo-epica, per questo, appunto, strettissimo legame tra dettato poetico e cosa.

Ma quale è per il Poeta “la lingua che combatte l’esilio” (v.3)?

Si delinea forse qui un’ipotesi linguistica parallela e contigua a quella che possiamo discernere in com/posizioni e in sotto, che significa la straniazione dalla lingua originaria del poeta nell’elaborazione di un metalinguaggio fatto di astrazione continua della “semplicità elegante e puntuale” del mondo circostante capace di porsi in una dimensione di memoria che sia oltre il tempo (cfr.Laura Branchini, Nota del Traduttore, Doveri dell’esilio, cit.), e della quale lo stesso Gelman fa cenno in nota a piè di La chiave del gas (Valer la pena):

[…]

non vede perché la metaparola della parola,
o l’ambiguità della parola,
o le ferite che la parola procura,
possano impedire a chiunque
di sapere […]
Il poeta ha torto perchè
la chiave della parola, diciamo così, né si chiude
né si apre, o forse nemmeno esiste,
e ancor meno la sua metaparola, ambiguità che ferisce o vuoto.
La realtà della cucina rassicura,
ci sono chiavi che si chiudono e si aprono, funzionano
svolgendo così la funzione di dimostrare
che esistono cose che si chiudono e si aprono,
e  mi risuonano da ieri nella testa che non riesco a chiudere.