“Pensieri di A” di Alice Calabresi
Recensione di “Pensieri di A”, prima raccolta poetica di Alice Calabresi (Lepisma, 2013).
C’è una pila di raccolte poetiche di autori esordienti sulla scrivania che aspettano una recensione o uno spunto o qualcosa da parte mia. Mai però come adesso ho difficoltà a leggere nuovi autori, a entusiasmarmi, a cercare risposte letterarie in versi troppo spesso lanciati lì sulla carta per esigenze istintuali più che poietiche.
Ma le poesie di questo libro, Pensieri di A (Lepisma, 2013) di Alice Calabresi, ho avuto la fortuna di leggerle ancor prima di essere pubblicate, obbligato non da una richiesta diretta ma dalle qualità della persona, dell’autrice, che me le ha date da leggere.
A volte dimentichiamo infatti che la letteratura (e la poesia, appunto) non sono esclusivamente un codice scritto da decodificare ma un incontro tra autore e lettore, che può avvenire tramite il rapporto diretto della pagina scritta o, in rari fortunati casi, nella conoscenza reale, nel dialogo, in un caffè bevuto insieme in una piovosa mattinata romana.
La bellezza della persona, la caparbietà e l’impegno che ho conosciuto si sono tradotte in questa intensa prima raccolta in poesie che ho letto prima che trovassero la loro forma libro.
La seconda lettura ha avuto il risultato di suscitarmi le stesse emozioni positive, nonostante la lontananza stilistica e linguistica che intercorre tra esse e il mio modo di intendere il verso (come autore, critico e come semplice lettore) e nonostante un volume (intendo come prodotto editoriale) che poteva e doveva essere curato meglio.
I pensieri di A sono una continua epifania di immagini, uno sguardo vivace e sottile – a volte troppo femminile (nel senso al tempo stesso positivo e negativo del termine) – sulla condizione umana.
Particolare e universale si intrecciano continuamente, mescolandosi e scontrandosi tra loro. Così la notte che è notte per tutti diventa una “notte di poesia senza scarpe”, una “notte senza segreti” e, infine, una “notte di parole e corpi tra pause e rincorse”.
Rincorse, appunto. Quella di Alice sembra una continua rincorsa, una ricerca ossessiva e squisitamente forsennata. Si rincorre e si cerca l’amore; si rincorre e si cerca la bellezza; si rincorre e si cerca la poesia.
Sì, perché la poesia diventa, oltre che aura superiore, una qualcosa al tempo stesso metafisico e profondamente terreno. La poesia è per Alice soggetto, complemento oggetto e predicato. A volte persino complemento.
Il linguaggio utilizzato è semplice, volutamente semplice. Si procede per asindeto, relazionando la propria immagine del mondo in una sequenza lunghissima di fotogrammi, squarci di luce immediati e lucentissimi. Quel che colpisce, in un vocabolario apparentemente immediato, è l’estremo garbo, un’antica (e, permettetemi, nobile) raffinatezza che ci offre una piacevole decodificazione.
È una lingua attrattiva e attraente quella di Alice Calabresi, sensuale e schiva, aristocratica senza mai cadere nello snobismo, che offre e toglie continuamente, come partecipassimo, noi insieme a lei, a un gioco di incastri in cui ne rimaniamo, volutamente o meno, catturati.