“Ordinate stagioni” di Leone D’Ambrosio
Recensione della raccolta poetica “Ordinate stagioni” (Ensemble, 2014) di Leone D’Ambrosio.
Libro complesso, nato da una mano saggia ed esperta: una mano lirica, sonora, in una parola unica. Unica poiché Leone D’Ambrosio è uno degli ultimi poeti dell’Italia che possono effettivamente fregiarsi di questo titolo. Infatti, a livello editoriale siamo negli anni in cui pubblicare un libro di poesia non è facile, quanto non è difficile: trovare un editore è la parte semplice, pubblicizzare, diffondere ed entrare nell’élite poetica è un’operazione più complessa e riservata a pochi. In questo caso, raro, siamo di fronte a un connubio che si spera (chi scrive lo spera davvero) sia, oltre che la continuazione, soprattutto il preludio per un lavoro editoriale sottotraccia ma attento, un lavoro capace di riunire tanto un editore ormai sempre più specializzato nella poesia, Ensemble, e, soprattutto, in grado di raccogliere finora alcune tra le voci più importanti del panorama nazionale dei tanto confusi poeti contemporanei, quanto, appunto, un autore come D’Ambrosio, lirico esperto, da tempo sulla rampa di lancio per entrare di diritto nelle antologie poetiche d’accademia.
Dopo questa doverosa premessa, passiamo all’analisi e alla presentazione del libro, che si fregia della prefazione della grande poetessa Maria Luisa Spaziani (la famosa volpe di Eugenio Montale, recentemente scomparsa lasciando il vuoto laddove era uno dei pochi fari) e, addirittura, di una nota critica, senz’altro utile come guida di lettura, a firma di Eraldo Affinati.
Il libro, il cui tema centrale è chiaramente il rapporto e l’emozione di dire con e verso la madre dell’autore, che svolge il doppio ruolo di musa e referente per eccellenza della lirica, si divide e si compone di due sezioni, la prima dal titolo In tua memoria, di cui mi sembra sia possibile riconoscerne il valore propedeutico ‒ una sorta di viaggio a ritroso denso di un lirismo sensibile e puro ‒ all’altra sezione, Ninfa inattesa, in cui D’Ambrosio, una volta fatti i conti con il contatto della misticità e della sofferenza (il libro non a caso si apre con un’epigrafe tratta dal Libro di Giobbe), riesce a (ri)creare una sovrastruttura poetica in grado di sviscerare l’assenza: il mondo del non detto trova, ergo, spazio e parole nei versi di questa seconda sezione. Se il libro è declinato sul tema della lamentazione e del ricordo (e quasi si avrebbe la tentazione di scomodare il Salterio e tutta la complessa poesia biblica) naturalmente del personaggio-fantasma della madre (e intanto si erge a monumento nel cercare di dare sfogo al rapporto conseguente della maternità), a questo tema chiave si accosteranno vari sottotemi di forma e origine classica, come il tempo, o lo stesso linguaggio; non mancano, infatti, riflessioni sul valore della parola e sulla sua attualità (per esempio si veda il primo componimento: «Falce è la parola, / sulla pianura accesa / i giorni di festa / ci sostengono dentro / le ordinate stagioni», dove mi sembra sia riconoscibile un tessuto ermeneutico a base luziana). A livello strutturale è d’obbligo notare due cose: una dispositio sicura e graduale, che si riflette anche negli stessi componimenti singoli, nei quali la versificazione, seppur composta da versi brevi, ricorda nella tonalità spezzata dai continui enjambement, il più classico degli endecasillabi (sembra quasi che la cesura si operi automaticamente tramite l’inarcatura e lo spazio bianco tra verso e verso) e, in secondo luogo, una forma grafica che fa sembrare l’impaginazione afferente ad alcune forme di compilazione antica.
Se questa è la forma del libro, per illustrarne il contenuto sarà utile proporre ed esaminare alcuni componimenti.
Il mare è saggezza d’ascolto
al nostro paziente andare,
s’affretta l’anguilla di Montale
per rallentare il suo rientro.
Più a fondo va per assopirsi,
c’è un tempo a cui ubbidire
e un altro per rassegnarsi.
Certe volte torna indietro
spaventata dalle correnti,
d’istinto è pronta a risalire.
La prima poesia proposta è L’anguilla di Montale, dedicata M.L.S., cioè la stessa Spaziani, altra madre, anche solamente “poetica”, sempre assente, stando almeno al tessuto esposto e al contempo presenza ricorrente e silenziosa del canzoniere moderno di D’Ambrosio. Nel componimento presentato il confronto con l’ipotesto è condotto da pari a pari. Il poeta non ha paura di nominare un altro spirito, Montale stesso, e se ne serve, anzi, per sdoganare la propria visione del significato a fondo dell’anguilla.
È tornato a sparigliarci,
a braccia aperte accogliere
il nome tuo contento
nella dorata pianura
che hai fatto tua casa.
Il mare ha spalle larghe
per un mantello di nubi
e il vento quel che cerca
è un cuscino per dormire.
Qui il sonno è l’alleato
più stretto della morte
quando viene la sera.
Il secondo componimento scelto, sempre parte della prima sezione, è dedicato al mare, ed è stato scelto in queste pagine proprio per spiegare, con le parole dell’autore, come i sottotemi della raccolta si susseguano l’un l’altro senza che il lettore sia pienamente cosciente del percorso panico a cui assiste. Il mare assume le caratteristiche di una personificazione attiva.
Lodabile altresì negli ultimi versi la capacità di D’Ambrosio di rovesciare la traditio lirica: se la sera è, di solito, la condizione temporale su cui iniziare una poesia, in questo caso l’autore conclude, invece, i versi tramite la stessa. Echeggia il ricordo di Foscolo per quanto riguarda il penultimo verso (naturalmente Alla sera,«Forse perché della fatal quïete / Tu sei l’imago a me sì cara vieni /O sera»).
Questa assenza ci disperde,
ti cerco nell’acqua sorgiva,
dentro un dolore scordato,
in una combustione di stelle
a confonderti con le fattezze
di una sapiente sera. Dio,
non è solo nella sua quiete
e il cielo al primo tuo passo
incerto d’eternità trema.
Il componimento proposto, Sapiente sera, è centrale nella seconda sezione. In un gorgo di azioni tra ricerca e dispersione l’autore-io crea immagini finissime, e paradossali, fondate su analogie dalla forma sinestetica, in grado di abbattere l’impossibilità di dire. Impossibilità che riguarda anche lo stesso recensore, il quale, davanti a una poesia tanto schietta, non può che consigliare al lettore il miglior modo di comprendere la poetica di Leone D’Ambrosio: leggerlo.