Nuovi autori / “La terrazza”: un racconto di Enrico Fermo
“La terrazza” è un racconto inedito di Enrico Fermo.
La terrazza si affaccia sul corso del paese. Larga e ampia, da lì si vede bene il mare con i suoi colori dal celeste al blu, chiaro a riva e scuro verso l’orizzonte.
Quando soffiava il vento mi arrivava in faccia lo stesso odore salmastro che sempre avevano addosso i pescatori che si avvicinavano a mia madre, quando andavamo a cercare qualcosa di speciale per papà. Lei non usciva mai da sola, io l’accompagnavo sempre. Rientravamo con la sporta in mano che reggevo io perché ero maschio e forte. Mia madre invece era delicata e gentile e sorrideva appena alle battute dei pescatori. Arrivati a casa lei si metteva ai fornelli. Cucinava anche con il caldo e cantava con la sua voce profonda. Quando sono nato aveva vent’anni giusti e i capelli tutti neri, gli occhi grandi e scuri come la notte.
Lei cantava e io uscivo sulla terrazza e l’ascoltavo.
D’estate succedeva solo il pomeriggio, il caldo era troppo forte. Però quando il sole girava e l’ombra arrivava con il vento dal mare, tutto diventava più fresco e si poteva uscire. La terrazza era circondata da una ringhiera bellissima, una vera e propria opera d’arte, più alta di me. Infilavo la testa in mezzo e guardavo in basso. Ogni tanto gettavo giù qualcosa, d’estate il legnetto del ghiacciolo e d’inverno le noci.
La ringhiera cambiava con il passare del tempo. Diventava ogni anno più bassa. O meglio, ero io che crescevo e per guardare le persone che passeggiavano in strada non avevo più la necessità di infilare la testa fra quelle figure in ferro battuto. Tralci di vite, rami di piante, girasoli.
Ogni tanto mi sporgevo di più, per guardare meglio la testa delle donne che passavano lì sotto, sempre coperte da cappelli. A fianco di ogni donna un uomo. O meglio: a fianco di ogni uomo, una donna.
Le donne indossavano il cappellino e gli uomini il cappello a falda. Feltro d’inverno e paglia d’estate. Nel salutarsi, le donne si scambiavano sorrisi mentre gli uomini sollevavano leggermente il cappello, mettendo in evidenza calvizie e brillantina.
Compiuti i sei anni riuscivo a osservare le persone che camminavano, rasentando il muro del palazzo senza sporgermi troppo. Questo accadeva soprattutto nelle giornate di pioggia improvvisa, quando tutti cercavano rifugio dai goccioloni. Uscivo sulla terrazza con l’ombrello per guardare, anche se mia madre si arrabbiava.
Mio padre invece non si bagnava. Quando pioveva lui non usciva mai. Ricordo bene la sua eleganza. In paese tutti lo conoscevano, andava dal sarto più bravo e ogni volta che usciva per una passeggiata i suoi abiti erano perfetti e la camicia candida e senza pieghe.
Non mi dava mai la mano.
Io camminavo avanti, lui e la mamma dietro.
Poi rincasavamo e lui usciva sulla terrazza e da lì osservava il passaggio, poi mi chiamava.
«Nino, vieni qua» mi faceva «vedi com’è la vita? Noi siamo sopra e loro sotto e così deve essere. Ricorda sempre che ti chiami Caradonna come me e come tuo nonno. Questo nome deve essere sempre rispettato. Da tutti». Io facevo cenno di sì con la testa ma non sapevo cosa volesse dire “far rispettare il nome”.
Lui si radeva ogni giorno poi si profumava e chiedeva a mia madre una camicia pulita. Lei era sempre pronta al suo servizio. Lo aiutava ad annodare la cravatta, poi ci puntava uno spillo con la perla. Un suo regalo, scelto un giorno alla gioielleria Fortuna. Prima fissava la spilla, poi lo guardava posandogli le mani sul petto. Lo guardava come me, dal sotto a sopra, perché mio padre era alto, altissimo, il più alto di tutti.
I Fortuna io li conoscevo bene. Abitavano in una casa vicino il palazzo del Comune, dal lato opposto al corso rispetto alla Cattedrale. Avevano una gioielleria sulla strada e un ampio appartamento al piano di sopra. Mio padre me li indicava quando passavano per recarsi a messa, la domenica. Lei indossava sempre un cappellino con la veletta nera e un vestito leggermente scollato. Si chiamava Marta e le piaceva posare al centro della scollatura, fra i seni generosi, un ciondolo di smeraldo circondato da piccoli brillanti. Regalo del suocero. Gioielliere anche lui, prima del figlio.
«Guarda lì, guarda che minne». Così mi disse un giorno mio padre che aveva quindici anni meno del gioielliere e praticamente la stessa età della moglie. Lui, il seno di quella donna lo conosceva bene perché lo vedeva spesso dalla terrazza. Secondo me lo conosceva meglio di quello della mamma che portava sempre vestiti accollati.
Tutto scorreva tranquillo, in casa nostra come nel paese. Poi un giorno arrivò la pioggia, una pioggia forte che lavava le strade e cambiava i colori dei muri. Una pioggia che sembrava non dovesse finire mai. Alla fine il tempo cambiò di nuovo e con quello anche mia madre che, nonostante il sole, appariva sempre meno allegra e più malinconica. Cantava raramente, sempre più di rado, forse perché un giorno aveva perso il mio fratellino che portava nella pancia. Si era sentita male, aveva pianto tanto e poi era venuta l’ambulanza a portarla via. Era tornata a casa dopo una settimana. In quei giorni ero stato dalla nonna che mi abbracciava e mi teneva per mano quando andavamo a messa. Sembrava quasi che avesse paura di perdermi e mi lasciava solo quando entravamo in chiesa.
Con il passare del tempo mamma e papà avevano iniziato a parlare sempre meno. Lui andava a trovare la moglie del gioielliere che era spesso fuori per affari. Lei, la moglie del gioielliere, era sempre allegra. Mamma la sera diceva a papà «Non andare da quella, resta a casa» però lui, alzava le spalle e andava lo stesso.
Il pomeriggio, quando si alzava il vento fresco, spesso ci trovavamo sulla terrazza per guardare il passeggio. Lui ogni tanto, indicando un passante, mi diceva «Vedi quello? È un cornuto. Dovrebbe fare due buchi grandi nel cappello per far passare le corna, tanto sono lunghe».
Mio padre andava fiero delle sue conquiste mentre io ero troppo piccolo per comprendere cosa volesse dire portare le corna. Però lui rideva e allora ridevo anch’io, per farlo contento. Ridere insieme ci faceva sembrare felici.
Io però molte volte pensavo alla mamma ed ero triste. Vedevo i suoi occhi scurirsi ogni giorno di più e mi sembrava annoiata quando non giocava o studiava con me. Io facevo i compiti e lei mi diceva: «Tu sei il mio ometto. Tu sì che mi dai delle grandi soddisfazioni». Le mie giornate passavano in fretta mentre lei si lamentava spessissimo: «Queste giornate, figlio mio, non passano mai».
Soprattutto erano lunghe quando papà era fuori e lei l’aspettava a casa. Papà non lavorava perché il nonno aveva faticato abbastanza per tutti e mio padre diceva sempre che lui non aveva bisogno di sporcarsi le mani con il lavoro perché aveva fatto gli investimenti giusti e poteva stare tranquillo per il resto della vita.
Mia madre non aveva preoccupazioni per i soldi però era triste per il tempo che sembrava non passasse mai. Si, perché il tempo trascorre in fretta quando sei felice e resta immobile quando hai la tristezza addosso.
Mio padre invece non sembrava triste. In cambio fumava molto. Fumava e pensava a molte cose, spegnendo le cicche nel posacenere di vetro. Credo che nei suoi pensieri non gli sia mai venuto in mente di lasciare la mamma. A modo suo le voleva bene. Così le diceva: «Di certe cose non si discute, tu sei e resti mia moglie e poi non ti preoccupare se esco. La sera tornerò sempre a casa».
Anche io ho sempre voluto bene alla mamma, sicuramente più di lui.
Mamma, però, un giorno smise di stirare le camicie e di annodargli la cravatta. Soprattutto smise di baciarlo. Senza giustificazioni e senza dire nulla. Semplicemente, smise.
Però io continuo a volerle bene come da bambino e ogni volta che mi affaccio dalla terrazza penso a quanto è stato bello conoscerla e mi immagino di vederla camminare per il corso con un vestito rosso mosso dall’aria che viene dal mare.
Mamma se n’è andata un giorno di aprile, tre giorni dopo il mio ventunesimo compleanno. Mi ha lasciato una pagina fitta di parole per spiegarmi quello che già avevo capito, quello che non avevo voluto comprendere e tutto quello che mi aveva sempre tenuto nascosto per non farmi soffrire.
So che tornerà da me quando potrà, quando sarà diverso.
La moglie del gioielliere ancora passa sottobraccio al marito. Negli ultimi tempi è un po’ cambiata: ha messo addosso qualche chilo e dalla terrazza le si vede qualche capello bianco. Ha preferito restare con il marito anche se è grasso e vecchio.
Respiro l’aria che arriva dal mare.
Partirò a breve per un altro spicchio di mondo. Ci pensavo da tempo a questa cosa del partire ma non l’ho fatto per non lasciarla sola. Ora è partita lei e io sono più sereno.
Nel frattempo la ruggine è spuntata qua e là sulla ringhiera. Mio padre mi ha raggiunto sulla terrazza. Si è appena rasato e l’odore del profumo è intenso. Posa le mani sulla ringhiera ed anche lui nota i punti di ruggine. Si affaccia e osserva il passeggio per un attimo.
Prende fiato e sputa verso il basso.