Nicola Napolitano e la poesia della terra
Dieci anni fa moriva Nicola Napolitano, uno dei più rappresentativi poeti del Novecento.
“Quando una volta un amico mi domandò se Montale conoscesse mio padre- scrive Giuseppe Napolitano – si, risposi, se Montale segue le tante riviste che pubblicano le poesie degli autori meno famosi”. Sono passati dieci anni dalla sua morte e Nicola Napolitano continua a vivere solo grazie all’amore caparbio di un figlio poeta e di qualche amico a lui vicino con i quali organizza convegni e ripubblica i suoi libri di racconti o di poesia “contadina”. Ecco perché amava dire: “Chi è nato contadino lo rimane per tutta la vita, qualunque sia poi l’attività che svolge”. È sempre il figlio Giuseppe, in uno dei suoi scritti, a ribadire che: “C’è in provincia un lavoratore della parola che ha fatto davvero della sua arte una missione privata, un messaggio da eremita, per decenni, senza scomodare i santuari della pubblicità, senza voler diventare altro da sé, per piacere di più”.
L’esordio letterario di Nicola Napolitano avvenne nel 1954 con la raccolta di poesie “La terra fiorirà”, cui si aggiunsero negli anni altre diciotto pubblicazioni tra liriche e racconti, come: “Sommessamente”, “Non si torna indietro”, “Anche il vento”, “Ciclamini”, “Scorza e mollica”, fino agli ultimi proverbi e modi di dire, usciti sotto il titolo di “Casale” nel 1993. Delle due opere pubblicate postume, le “Lettere di un soldato” sono per lo più estratti dal suo diario di guerra, dal quale furono già tratte le pagine di “Diario di Creta” nel volume “Non si torna indietro” del 1967 e alcuni racconti apparsi in “Viandante” nel 1985. L’altra, invece, “Disegnare il tuo nome”, è un racconto lungo di un amore giovanile, cui si accompagnano scritti sparsi che completano le vicende degli anni di guerra. Sono questi i temi della sua poetica: la guerra e la prigionia, le campagne d’Africa e di Grecia, la deportazione in Germania. Ma nei suoi versi si respira soprattutto l’aria della sua Casale di Carinola, dove era nato nel 1914, della sua famiglia di agricoltori e della sua terra che aveva lavorato fino a ventidue anni, prima di laurearsi in lettere a Roma. E poi, la sua Formia, dove s’era stabilito dal 1957 e prima di diventare preside aveva insegnato per molti anni a Castelforte, dove sposò nel 1947 la “maestra-poetessa” Lina Rotunno dalla quale ebbe tre figli.
Il 26 novembre del 2003, all’età di quasi novant’anni (li avrebbe compiuti il 17 di gennaio) il “preside-poeta” Nicola Napolitano ci lasciava. E con lui se ne andava un pezzo di storia della poesia del Novecento e con lui la sua faccia minuta e cotta dal sole, il suo perenne sorriso, quella stretta di mano che l’uomo onesto ti porgeva. E ha ben ragione il figlio Giuseppe quando scrive: “La critica che dovrebbe avere la c maiuscola, se riuscisse a meritarla sempre, quella dei critici di nomi che fanno il gusto con il loro assenso, non si è occupata di Nicola Napolitano, malgrado i vari decenni della sua attività, le diciotto pubblicazioni a suo nome, le centinaia di presenze in numerosissime riviste letterarie di mezzo mondo”. Ma la critica più attenta, ha seguito eccome l’opera letteraria di questo poeta, tanto che le sue opere sono state tradotte e pubblicate anche in Brasile, Stati Uniti, Francia, Grecia, Romania e Svizzera, e sono state oggetto di tesi di laurea.
In una “Autoantologia” poetica di Nicola Napolitano, l’opera postuma più recente, stampata con l’etichetta “la stanza del poeta” (la collana editoriale diretta appunto dal figlio Giuseppe) viene ricordata l’ultima sua poesia: “Non vedrò più Casale, . . ./ vi passai la fanciullezza; giocavo, scavando grotticelle nelle pareti della via./ Vi passai la tempesta giovinezza. Lavoravo in campagna: stroncate le speranze./ Buio. Poi altre speranze si riaccesero./ Passò la guerra, fu nuova luce: gli studi, la laurea, l’insegnamento./ Non vedrò più Mondragone, non vedrò più Roccamonfina./ Tutto è passato. Ho pietà di me stesso.” Quando la scrisse era quasi paralizzato e dal balcone di casa a Formia vedeva il Monte Massico e nella sua memoria ricordava la sua vita. Quel monte però, come la siepe leopardiana, gli impediva la vista del suo luogo natio, ma non della sua memoria.
Nicola Napolitano è stato un poeta vero, legato alla sua origine contadina, ispirato dalla terra natia del sud, dal proprio vissuto, un uomo e un insegnante semplice e onesto, fedele a se stesso, ai propri ideali e valori. Se l’amico scrittore Pasquale Maffeo ha definito la sua poesia “il tramite d’un certo filone aureo del nostro Novecento, di fondo crepuscolare all’inizio, più essenziale e novatore nelle ultime cose”, per altri due amici poeti, Renato Filippelli e Italo Rocco fondatore di “Silarus”, la cristianità e l’amore di Nicola Napolitano passavano attraverso l’anima della famiglia.
Nicola Napolitano è un grande poeta. È giusto che sia così. Quello che non trovo giusto è che come altri grandi poeti, non certo “minori”, tra i più rappresentativi del Novecento, parliamo di Libero De Libero, Elio Filippo Accrocca, Alfonso Gatto, Rocco Scotellaro, siano stati troppo presto dimenticati.