Natan Zach. Nell’ascolto della parola che cade
Una lettura dalla raccolta “Sento cadere qualcosa” di Natan Zach (Einaudi, 2009).
“Vieni dal Libano, mia sposa.
Vieni dal Libano, vieni.”
(Cantico dei Cantici)
La letteratura ebraica si porta dentro il seme dell’erranza, il senso di ricerca di un luogo o di ritorno in un luogo che si possa definire patria, “terra-casa” (ing. homeland, ebr. מולדת “moledet”). Questa caratteristica, connessa alla retrospettiva storica dell’esilio, riesce a rivelare il suo risvolto simbolico attraverso e nella lingua.
“La vera patria dell’ebreo è il libro” – afferma Antonio Prete in una postfazione all’edizione italiana del Livre de la subversion hors de soupçon di Edmond Jabès. Punto di inizio e di approdo, sul libro viene proiettata la metafora della terra ambita. Quindi la dinamica di insediamento, di stanziamento nella patria-libro è la lingua: essa ne incarna simbolicamente il movimento migratorio.
La letteratura, e la poesia, può contenere il riflesso di un confine altro, un esilio interiore. Rappresenterà pertanto il bilancio, talvolta irrisolto, di uno sradicamento tanto fisico quanto interno. La lingua testimonia un’“assenza di territorio”, divenendo essa stessa luogo utopico del linguaggio. La parola poetica si costituisce in definitiva tenda dove estendere il suo spazio di rivelazione e identità, cercando di trovare la terra che sia casa in cui impiantare le השורשים “shorashim”, le radici.
Natan Zach è un poeta che cerca di risolvere il suo esilio nella scrittura, servendosi della lingua biblica; Ariel Rathaus riporta nell’introduzione alle poesie che, nonostante i vari spostamenti fra Palestina, Londra e Israele, Zach “vive ancora in ebraico”, immerso nella materia linguistica della Tanak.
La sua non è poesia di sentimento nell’accezione romantica del termine – potremmo dire ormai proverbiale l’incipit “Quando cala il sentimento, parla la giusta poesia” – ma sa raggiungere una consapevole liricità senza abbandonarsi alla nostalgia )“non risvegliare in me nostalgia/non ho bisogno di misericordie” in Non farmene una colpa). La sua risolutezza culturale nell’elevare lo sradicamento a motivo di profonda ma dolorosa riflessione si fonde con la ricerca nella lingua che sappia dare senso nello stare in questo mondo. Così facendo, la sua scrittura si colloca in un orizzonte di ascolto. Perché Zach scrive per ascoltare e ascoltarsi. L’autore di fatti ci informa da subito: “Sento cadere qualcosa”, non ascolta cioè un qualcosa già ac-caduto simile a un rumore o un evento esterno; nel silenzio sente che qualcosa sta cadendo, ed è la parola nella sua potenza rivelatrice e inattesa: “Poesie inattese. Crudeli/a guardarle come mari. […] Poesie che rammentano.” Non inatteso è invece il richiamo alle sue radici; colori e immagini di un posto – per esempio Roma il cui tramonto viene descritto con l’ambrato del miele – accendono evocazioni sulla sua terra, vicina per quanto distante: “sto seduto a piazza Navona/davanti a una tazzina di caffè […]/ adesso nella mia terra cala la sera con ardenti/colori, mentre qui tutto è lento, tutto indugia” (in Il miele delle cinque).
La poesia è la sua terra con la quale stabilisce un patto di lealtà descrittiva. Il suo dire chiaro e diretto ospita un’accentuata ironia, registro a lui caro che gli permette un umorismo sostenuto in Tè sotto gli alberi (“Il professor Arnold Edwards/il cui nuovo libro su Shakespeare/non è stato lodato dalla critica […]/ cortesemente ride di un nonnulla/come se al mondo non ci fosse Shakespeare”) e persino un’analisi tagliente e drammatica sulla storia civile: “Lo zelo patriottico è una sorta di malattia/endemica in tempi di crisi/e in attesa di un futuro migliore.” (La signorina Lakstein). Poesia-racconto quindi, che mette sotto accusa la realtà dei tempi e ne indaga i lati più crudi (Ruth, Non c’è scelta).
La trama memorialistica si insinua fittamente nel suo percorso à rebours; il ricordo si popola di accadimenti quotidiani i cui significati sfuggivano allora all’autore ma si caricano di intensità simbolica nella coscienza matura (I viali dell’infanzia). La memoria diventa un rifugio da cui fuggire per poi ritornare in quanto legata alla situazione storica che portò allo spostamento: “Berlino. Città da cui/ricorderò di fuggire e fuggire ancora verso la mia città/da cui non si può fuggire.” Ma la memoria si prefigura come rischioso percorso di non ritorno perché indica una condizione non più realizzabile: ricordare è attuare un’altra shoah in cui l’essere umano perde l’identità, considerato che “Tornare non si può più. Ricordare è solo/sapere che l’istante stesso in cui l’uomo ricorda non esiste.”
Natan Zach giunge sul crinale acuto della parola, cattura in un fotogramma la verità, e tuttavia non la declama a voce alta, ne parla in modo discorsivo e colloquiale per tentare di stabilire un contatto con l’altro: “e non chiedo più nulla, sussurro solamente,/e anche ciò senza voce.” (Brandelli di memoria).
Dal suo isolamento interiore e volontario il poeta osserva la realtà e declina in versi la sua disillusione e il suo disagio verso la situazione politico-sociale in Medio Oriente sopraffatta dalla violenza, ma non annulla del tutto la speranza del canto. I termini stessi di poesia e canto in ebraico si equivalgono (שיר השירים “shìr hasshirìm” è il Cantico dei Cantici, per indicare la poesia si usa il termine שירה “shìr”); la poesia di conseguenza fa sentire la sua voce in un canto proteso nella speranza. Il brano Quel paese sembra lanciare il messaggio di un ritorno, in cui se è vero che “Quel paese in lontananza, vagheggiato,/ha case in pietra/ed è tutto memoria” il cuore del poeta si modula sull’esortazione del risveglio biblico del talithà a “inventare nuovamente […] una vita, un luogo.” Per questo si rende urgente la ricerca di una patria, per recuperare il senso di un’identità. Perché la patria si fonda in un percorso in avanti nel futuro, non nel passato. E per costruirla Natan Zach resta in ascolto della parola. Parola che cade, parola che rivela.
Note biografiche
Nato nel 1930 a Berlino da padre tedesco e madre italiana, Zach è costretto dal nazismo ad emigrare bambino in Palestina con la famiglia. È considerato uno dei maggiori esponenti di quella che è stata definita la nuova ondata della poesia israeliana, nata intorno agli anni ’50, affiliatasi allora intorno alla rivista Liqràt. La sua prima raccolta Shirim Rishonim (Prime poesie) risale al 1955. Dal 1968 al 1979, infatti, visse in Inghilterra, dove completò i suoi studi; di ritorno in Israele, insegna nelle università di Tel Aviv e Haifa. Ha esercitato una profonda influenza sulla poesia ebraica moderna. Nel 1995, grazie alla raccolta Keivan She-Ani Ba-Svivah (Dal momento che sono nei paraggi), vinse il prestigioso Premio Israele, mentre nel 2000 per l’antologia Sfavorevole agli addii (Donzelli Editore, Roma 1996), gli è stato conferito il Premio Internazionale di Poesia Camaiore. Altri suoi versi sono presenti in Poeti Israeliani (Einaudi, 2007).