“Malaparte. Vite e leggende” di Maurizio Serra
Curzio Malaparte si ama o si odia. Io lo amo. E molto. E lo mano tutti quelli che vivono in quella linea invisibile che divide i vincitori e i vinti. Di chi può persino perdere ad Austerliz, ma finisce che vince o preferisce vincere a Waterloo.
Il libro “Malaparte. Vite e leggende” (notate i plurali, azzecatissimi) di Maurizio Serra, edito per Marsilio, ho avuto la fortuna di averlo tra le mani nella sua prima edizione, francese.
L’autore – ambasciatore d’Italia all’Unesco – immagino ci abbia messo poco a convincere Grasset che su Curzio Malaparte c’era ancora molto da dire. In Francia il valore di opere come Kaputt, La pelle, Tecnica del colpo di stato lo hanno saputo riconoscere ben prima che da noi.
Eppure anche da noi ne hanno parlato molto di Malaparte: ancora prima di Giordano Bruno Guerri ci avevano provato studiosi come Falqui, Pardini, Campailla, Lusi, Vigorelli, Perfetti, Canali e molti altri (mi perdoneranno, spero, la dimenticanza).
Serra ha fatto un qualcosina in più: ha studiato, raccolto ed enciclopedizzato Curzio Malaparte. Merito va anche a chi glielo ha permesso: il lavoro che è stato fatto dalla fondazione Biblioteca di via Senato (e dal direttore Matteo Noja) è stato più che ottimo, magistrale.
L’Archivio Malaparte è stato saccheggiato, vivisezionato, nuclearizzato fino a disegnare una figura poliedrica, i “mille volti di uno degli interpreti più singolari del Novecento”.
L’interesse nei confronti dello scrittore Curzio Malaparte in questi anni è cresciuto notevolmente, anche e soprattutto grazie allo stemperamento della “questione politica” che lo aveva inquadrato in uno o più schemi quantomeno approssimativi. L’immagine che ne scaturiva era quella, come molto bene afferma Giuseppe Pardini nella sua biografia politica , di «un narratore e giornalista geniale ma senza principi, di un esteta raffinato e gaudente, di un uomo disposto a transitare senza problemi da una parte politica all’altra».
In questa maniera però si è istituzionalizzata una leggenda priva di fondamento e si è reiterato in un errore di valutazione amplificando da un lato i difetti dell’uomo (che comunque ce ne sono) e sminuendo, dall’altro, i meriti letterari ed artistici che sono moltissimi.
Malaparte è stato, per il Novecento, un protagonista di statura europea: volumi come “Kaputt” o “La Pelle” o anche “Tecnica del colpo di stato” (che ha avuto la particolare storia editoriale di uscire prima in Francia che in Italia) sono opere ancora molto amate (e lette) sia in Europa che in America. Certo, la personalità dello scrittore è e rimane tanto sfaccettata e ricca di chiaroscuri da apparire difficilmente penetrabile, ma sembra che, almeno apparentemente, si sia ri-iniziato a discutere sul valore, a mio avviso, indiscutibile di alcune sue opere e del suo pensiero politico che, volenti o nolenti, ha accompagnato alcune stagioni fondamentali del nostro paese.
Da sempre considerato “scrittore maledetto” se leggiamo con rigore, senza pregiudizi, le molte pagine che ci ha lasciato ci accorgiamo, a mio avviso, di quanto questo scrittore si presenti come protagonista e come testimone privilegiato degli avvenimenti del suo tempo, in quel terribile passaggio della nostra storia in cui dall’inizio della prima guerra mondiale alla fine della seconda si è assistito ad una irragionevole strage e alla rottura di molti schemi (politici e sociali) precostituiti.
Malaparte si muove tra l’orrore e i “fatti di sangue” come un cronista disincantato e consapevole, perso in riflessioni che trovano, non nel singolo avvenimento ma in una catena di conseguenze, la propria ragione d’esistere. Oscillando tra sogni e utopie, speranze vane di riparare l’irrimediabile o di riprendere un cammino interrotto da una brusca “rottura”, tenta di farsi interprete fedele di una realtà complessa e ricca di contraddizioni.
Lo sguardo di Malaparte si sposta come una telecamera in continuo movimento che ferma l’immagine ora su un evento, ora su un altro. Prima la guerra combattuta e raccontata, la logorante vita di trincea, l’allucinante stillicidio del primo conflitto che con Caporetto vede il clamoroso rovesciamento della morale borghese, l’elevazione da “sconfitta storica” al nuovo significato di vendetta del popolo umiliato e offeso. Poi l’appassionato racconto di un incubo, l’eloquente resoconto del marciume della società moderna, l’isterismo estremo e il tormento al tempo stesso attrattivo e ripulsivo con cui ha descritto l’Europa alle prese con una guerra, la seconda, generata dal un germe comune: la follia.
Anche la prosa malapartiana è mossa da una carica istintuale, è ricca di espressività e di “espressionismo”, si sfuma in una resa verbale al tempo stesso realistica e immaginifica. Il linguaggio si presenta nella sua sontuosità, nella ricerca costante ed esasperata di ogni possibile apporto descrittivo. Si va avanti per metafore, per similitudini e creando microcosmi pregni di un’aurea poetica e di prospettive nuove, inedite, sorprendenti.
Le sue opere maggiori sono proprio quelle che parlano di guerra, non importa il palcoscenico da cui sono tratte ma gli uomini che vi partecipano. E cambia la sensibilità con cui sono osservate: da una parte l’esperienza carsica e il successivo ritorno alla “normalità”, nella quale la classe politica cercava di nascondere la disfatta del 24 ottobre 1917 e in cui Malaparte intravede non un ammutinamento militare ma il perturbamento sociale di una vera e propria rivoluzione; dall’altra la delusione fortissima di una Europa sconfitta e priva di ogni ideale di purezza che coincide in una coscienza comune vergognosa, umiliata e disfatta. Una Europa che nel 1945 si risveglia dal peggiore degli incubi, da una sconfitta totale: lo scrittore diventa “portavoce” di uno scenario di orrori continui e implacabili, si immerge in un abisso di dolore, di disperazione, di disgusto e riemerge in una luce fioca e labile di speranza.
Ma Malaparte non è solo storia, è leggenda.
È leggenda perché ha saputo continuamente inventarsi, personaggio pubblico per volere e necessità. Un D’Annunzio al contrario, sempre volutamente dall’altra parte.
Di Malaparte si dice tutto e il contrario di tutto. Come spesso accade a chi si trova a dover contrastare degli stereotipi, si può incorrere a volte in qualche eccesso nella direzione opposta: cioè attribuire allo scrittore toscano qualità “morali” superiori a quelle realmente possedute. Non è il caso di Serra: ad emergere è semmai una modernità pura, visionaria e – anche se certamente narcisa – anche una certa profonda umanità.