Libero De Libero, poesia come “ceneriera”

Libero De Libero, poesia come “ceneriera”

Un interessando sguardo sulla complessa opera del poeta Libero De Libero, una delle voci più significative del Novecento italiano.Museo è un libretto di quarantuno poesie inedite di Libero De Libero, scritte a china, prevalentemente tra il 1935 e il 1940, accostate senza un ordine preciso. Ma è lo stesso De Libero a piè di pagina di copertina a precisare che ne è l’editore (“io editore”) e che è a lui dedicato (“a me dedicato) e che “questa raccolta va riguardata come una ‘ceneriera’ e non come un’ambiziosa opera. Cose nate morte, e cose unicamente alla memoria di certe giornate.” Siamo in un momento di passaggio e di fermento della letteratura italiana e la poesia di De Libero è inquadrata nella storia del linguaggio lirico e nel panorama culturale suo contemporaneo. Le prime liriche di Libero De Libero sono accolte da Giovanni Battista Angioletti nel 1931 sull’“Italia Letteraria”, ma la sua vocazione di poeta si conferma qualche anno dopo, nel 1934, quando Ungaretti sui “Quaderni di Novissima” pubblicando Solstizio gli scrive: “C’è nella sua poesia qualcosa che tormenta e nello stesso tempo trasfigura, espresso nei suoi momenti felici, come non ho sentito da altri. È questo il punto profondo e originale che merita da parte sua, e precisamente perché è tutto suo, attenzione e sviluppo”.

Nelle poesie raccolte in Museo, appartenenti prevalentemente a questo periodo d’esordio, è già possibile riconoscere il poeta (di Scempio e Lusinga e Di brace in brace) che lascerà un’impronta personale in ogni verso, nella metaforica, nello stile e tingerà la propria anima di luoghi e paesaggi a lui tanto cari, come la Ciociaria. Così De Libero compie un itinerario formativo e intellettuale da Fondi verso Roma, che sul finire degli anni Venti, lo accoglie nell’abbraccio delle sue stradine, delle sue scalinate e dei suoi quartieri. La città eterna, delle acque, delle fontane e delle rovine. Nella poesia di De Libero s’intersecano vissuto, ricordo e riflessione ed è così che fa del suo territorio e del suo linguaggio una vocazione europea. L’idea è senz’altro connessa a una poesia come illuminazione che vive un rapporto luce-buio e si nutre della sostanza autobiografica. È questa una lirica di cui si percepisce ogni segno:

Eco schiusa

         Assapora la mente un tuo sguardo

            che in fondo a me stesso me trascina

e chiuso rimango come l’eco

          che ti narra nel fuoco del mio volto.

(1940)

Libero De Libero, dice bene Carlo Bo, “ha speso tutta la sua vita inseguendo un disegno tra i più alti del nostro tempo per dignità, per forza di tensione, mai toccato da suggestioni di comodo o calcoli di successo.” Difatti, la poesia di De Libero, “ermetica” o “surreale” che sia, a mio avviso, va riguardata più come un lento fuoco di brace, che come “ceneriera” di certe giornate.

Accertato che la poesia di Libero De Libero nasce sostanzialmente da un amore incontaminato per la cantabilità della lingua, che impone però toni, livelli e timbri della più limpida e ampia vocazione; vero è anche che questa sua poesia, quasi sempre elegiaca, suona come una confessione e il contenuto d’amore trova spontaneamente la sua forma intima nella vivezza delle immagini. Tuttavia, De Libero lo ha già indicato nel corso di un’intervista pubblicata nel 1960 in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio Filippo Accrocca: “Ma in tanti anni di lavoro assiduo più di quanto non sembri, non è stato mai facile districarmi dagli equivoci creati dal mio paziente riserbo né vincere la mia incapacità ad accettare compromessi e opportunismi: e uno scrittore che oggi non appartenga né all’uno né all’altro dei partiti in lotta per una congenita idiosincrasia non trova scampo che nella ragione e nelle ragioni dal suo vivere da uomo libero tra uomini liberi, in un’epoca tanto meravigliosa quanto ampia, nella quale più che mai la poesia deve esprimere un supremo e resistente atto d’amore.”  Come questa poesia:

Scritta da un fiore ( Per C.)

     Era la tua finestra nello specchio

ove il cielo in fumo s’allenta,

tu collina deserta a te rivolta

     nell’iride antica del tuo sguardo.

                Stava un’alba confusa e presso il fiume

anche tu canna nel canneto,

       parola odorosa scritta da un fiore

nell’aria degli ulivi ti risento.

(1940)

In De Libero, c’è un parziale svelare dell’amore, il più delle volte ambiguo ed efebico, mentre la passione è sempre placata nella contemplazione.  A dare una definizione articolata è Paolo Ruffilli “nel senso, ciò che di vago e indefinito avvolgeva figure e situazioni si è precisato nei contorni, staccandosi da fondali e pareti”.

La poesia di Libero De Libero negli anni di Museo si anima di una cupa luminosità interiore. Per De Libero, il poeta “si riconosce dal broncio […] e continua a scrivere i silenzi della propria solitudine.” Il linguaggio involuto e qualche volta criptico, la felicità che si muta in pena e il tempo che frana, sono la chiave di lettura di questa inedita produzione poetica. A ragione di quanto scrive Giorgio Caproni: “La poesia di De Libero mostra d’essere giunta alla compiuta maturità, al punto giusto per essere spiccata dal ramo e offerta al giudizio definitivo della critica e della storia di questi anni. E s’intenda, per maturità, il superamento ormai perfetto d’ogni esperienza letteraria, e quindi il raggiungimento d’un’autonomia e disinvoltura di voce così definite, da rendere per l’avvenire improbabile, se non addirittura impossibile, qualunque sorpresa”. Certo è che il tono di uno stile aspro e la veemenza di metafore, fanno di De Libero, da questo momento in poi, un poeta fedele alla sua poetica, occupando, senza “sorpresa”, un posto ben distinto e determinato nel nostro panorama letterario. A più di trent’anni dalla scomparsa di Libero De Libero lo studio (e la pubblicazione) di quest’opera rimasta finora inedita, vuol essere soprattutto una sorta di “risarcimento” nei confronti di un poeta dimenticato troppo in fretta da editori e critici.