Libero De Libero, la poesia di Fondi che stordisce aranci
Il 10 settembre Libero De Libero avrebbe compiuto 110 anni: uno dei poeti italiani tra i più grandi del Novecento, oggi un po’ troppo dimenticato.
La sua poesia partì da radici ungarettiane, con echi della visionarietà di Quasimodo, ma si staccò dalla scuola ermetica per divenire, come lo definisce Gian Franco Contini “tra i migliori rappresentanti di un vero e proprio surrealismo italiano”. Il poeta è Libero De Libero, nato a Fondi il 10 settembre del 1903 e scomparso a Roma il 3 luglio del 1981, all’età di 78 anni. L’anno precedente aveva annotato nel suo “Diario”: “Molte delusioni”. Allora, se per qualcuno è a volte ermetico a volte surreale, per la critica ufficiale è, invece, il maggiore “lirico puro”. Libero De Libero è stato, intanto, uno dei massimi esponenti dell’Ermetismo degli anni Trenta, assieme a Ungaretti, frequentando i vari Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli, Leonardo Sinisgalli. È l’autore di diverse raccolte di poesie, fra le quali, “Di brace in brace”, “Circostanze”, “Solstizio” e ha diretto la prestigiosa galleria d’arte “La Cometa” della contessa Anna Letitia Pecci-Blunt, risultando essere il critico d’arte capace di convogliare in questa galleria le personalità più importanti del mondo letterario, culturale e artistico di quegli anni. Attraverso la direzione de “La Cometa”, De Libero venne a contatto con i più importanti pittori dell’epoca, principalmente con Scipione e Mario Mafai, entrambi fondatori della cosiddetta “Scuola Romana”.
Secondo Natalino Sapegno “l’opera di De Libero merita tutta la nostra attenzione, merita che si ritorni su di essa per meditarla, per riconoscerne tutti gli aspetti, per misurarla in tutte le sue qualità”. Ma chi meglio di lui ha cantato la Ciociaria. Quella fertile pianura circondata dagli Ausoni e dagli Aurunci. Spaccata da quelle colline. Un paesaggio che fa di questi luoghi la “fisicità” dell’anima del poeta fondano: “È un veliero la mia vita/ dall’infanzia segnata sulla mano”. La Ciociaria in De Libero è un mito, una reliquia. Così, per Carlo Bo, “Dio si era incarnato negli alberi, nelle vigne della sua terra. Non c’era dunque bisogno di nomi, di mediatori, ma c’era però bisogno di uno strumento integro e puro, quale è quello della poesia”.
Ma c’è, in De Libero, anche un rapporto “carnale” con Fondi. “A tratti una ventata calda di profumi come una ventata di passioni respiro come etere, sentivo il corpo come una violenta enfasi che mi spingeva sguardi impudichi e desideri impossibili. Ritrovo quei pomeriggi soffici e piumosi di primavera a Fondi durante le feste di Pasqua, li avevo dimenticati, pomeriggi color celeste con premi invisibili di odori e di voci, pensati e distesi tra la gente e tra le cose, nelle facciate e sui tetti, intorno ai profili delle colline, negli spacchi crudi della campagna, nell’andatura stessa di passanti”. E, ancora dal suo “testamento”: “Sono mesi che manco da Fondi. La mia medicina è là, in quell’aria, in quel cielo, nel paesaggio dove anche i battiti del mio cuore s’arrestano quando io vi trascorro e sempre alla stessa svolta, finita la strada della stazione, alla svolta per la via Appia che incomincia la mia storia e là finisce quando io parto. Mi sento una cosa di quel creato anch’io, una cosa né trascurata e né dimenticata, una cosa ciociara in terra ciociara, una terra così segreta, ignorata. Se dovessi confessare a chi andrà il mio ultimo palpito, io direi a Fondi, alla mia terra ciociara andrà e non per dirle addio, io resto là”.
Tuttavia, De Libero ebbe un rapporto conflittuale con Fondi. Amò in modo viscerale Patrica, dove diceva addirittura d’essere nato e dove è sepolto (“Ciociaria o mia bianca giovenca,/ dovunque mi segni col tuo fiato”) e poi Roma, dove fondò oltre alla galleria d’arte “La Cometa”, la rivista letteraria “L’Interplanetario”. Erano gli anni del sodalizio con gli amici “ciociari”: Menico Purificato, Peppe De Santis, Pietro Ingrao, Danino Di Sarra e il “gemello lepino” Elio Filippo Accrocca. È proprio il pittore Purificato a sottolineare che “molti amici fondani sono stati vicini in quel periodo di grande sodalizio e tutta la Fondi intellettuale verteva, faceva capo e si serviva del già grosso nome di De Libero, che ha sempre dimostrato un grosso attaccamento alla propria terra, ai propri luoghi, alla propria gente finché le non poche delusioni lo hanno man mano allontanato”. Con Fondi, sua città natia, c’è, quindi, un rapporto di odio-amore. In “Ascolta la Ciociaria” la esalta: “Verrà il tuo turno/ d’essere lanciata come una mongolfiera/ nel giorno sugli Ausoni”. In “Creatura Celeste” la rimpiange: “La nostra sorte è la separazione/ la fretta dei ritorni è già l’addio,/noi siamo una famiglia vanitosa”. De Libero si ripromise di non tornarvi mai più. Scrisse “Letterina a F.”, inclusa nella raccolta “Di brace in brace” del 1971, nella quale esprimeva al proprio paese l’amarezza della decisione presa. “Non passerò per le strade/ nelle tue case più non entrerò/ mai più cercherò con la rugiada / l’azzurra lucertola sui muri”. Ma già prima, con un articolo su “Il Popolo di Roma”, “Ritratto del mio paese”, datato 28 febbraio 1928, egli determinò la polemica. “Antitradizionale, fanatico e avventuroso il mio paese vive una vita particolare. Ogni giorno è festa e si banchetta sotto i baldacchini delle cappe con quell’allegria sfacciata, ghiotta e primitiva dei meridionali che vogliono santificare il lavoro ad ogni costo. E si scambiano le cosce di montone infiocchettate di verdure con largo battere di mani come nelle scene conviviali che sdoppiano il panno di certi arazzi”.
Le lettere agli amici, il più delle volte esprimevano il canone della sua estetica. Nel 1973 De Libero scriveva: “Quanto al mio distacco da Fondi, è una vicenda del tutto naturale. A pochi mesi dalla nascita la mia famiglia mi portò a Patrica, e vi restai fino a vent’anni, quando le persecuzioni dei fascisti costrinsero mio padre a ritornare al paese natio, dove i fascisti locali lo perseguitarono fino alla morte. le mie prime parole furono dette in dialetto patricano, la mia poesia è sbocciata tra i tufi di quelle colline e montagne, nel cimitero riposano, mia madre, un fratello (ovvero quello di “Proprio un mattino d’aprile”), due sorelle e un fratello morto nascendo, e vi porterò anche mio padre e un’altra sorella. Il mio tardivo trapianto a Fondi è fallito, perciò sono un rigetto di quell’operazione non riuscita. Il resto è un silenzio che ha suggellato per sempre la fine di un’epoca mia e della mia famiglia”.
Qualche anno prima che morisse, De Libero fece ritorno a Fondi. A casa del fratello Dante. Si riconciliò, forse, con il suo paese. Lo evidenzia anche il regista De Santis, che per lui aveva scritto la sceneggiatura di due film “ Non c’è pace tra gli ulivi” e “Giorni d’amore”: “in realtà tutto quello che De Libero ha scritto su Fondi, tutto il suo rapporto anche umano, fisico, con questa cittadina è un rapporto assolutamente di amore e direi, anzi di grande amore. De Libero aveva delle ragioni di odio soltanto per alcuni dispetti che gli sono stati fati, oppure perché riteneva che i fondani non capissero a sufficienza e in profondità tutto quello che lui scriveva su Fondi”. Libero De Libero amava Fondi, come Patrica. L’amava di nascosto, senza farsi scoprire. C’è chi racconta che ci veniva di notte, quando tutti dormivano, così nessuno poteva vederlo, a contemplare le sue piazze, le sue strade e poi far subito ritorno a Roma, nella sua casa al numero 4 di via Perugino, “con una grande terrazza aperta in cielo al settimo piano”. Come un suo madrigale. Come una sua elegia. “Fu la pianura contrada soave/ della giovinezza che alta correva/ alle risse gioconde della vita/ del ricordo non basta la mia nenia”. E, ancora, in una poesia inedita del 1931, ritrovata nel quadernetto “Museo”: “A Fondi l’acqua stordisce/aranci, d’alba screpola/campagne in calore/costellazioni terrene/fanno gli ulivi./Stretti/al salice che li scolora/respirano pazzi. Alle vigne/è guardiano il sole”.
Libero De Libero, dice bene Carlo Bo, “ha speso tutta la sua vita inseguendo un disegno tra i più alti del nostro tempo per dignità, per forza di tensione, mai toccato da suggestioni di comodo o calcoli di successo.” E, aggiunge Giuliano Manacorda: “così ci ritroveremmo ancora nell’irrisolta dialettica, assenza- presenza, simboleggiante tutti i certami interiori che muovono l’intera poesia di De libero e la sostanziano di un’inconfondibile drammaticità tanto più sofferta quanto più avanzano i giorni stracciati del tempo’”.
Dunque, Libero De Libero, non è soltanto il poeta di Fondi o di Patrica, è soprattutto un poeta di ampio respiro europeo, tra i più grandi del Novecento, oggi, a più di trent’anni dalla sua morte, un po’ troppo dimenticato.