Letture di una militante poetica // #2. Truman Capote
Ci sono scrittori che non amano cimentarsi dei libri degli altri, mentre si preparano a scrivere il proprio. Dicono preferiscono non lasciarsi influenzare, e allora fanno tabula rasa delle loro letture.Questa affermazione mi è sempre sembrata strana, suonandomi estranea. In quanto poeta, ho bisogno dei libri degli altri, per poter procedere con la scrittura dei miei. Non si tratta di svelare un rapporto d’imitazione, ma piuttosto un dialogo, e quando possibile anche una competizione. Quante volte ci siamo trovati a leggere un libro che ci ha affascinato tanto, al punto d’esclamare : «vorrei scrivere un libro come questo!»? Da parte mia, generalmente amo togliere il «come» della similitudine, e correggere l’esclamazione affermando che vorrei scrivere un libro anche «meglio di quello appena letto». Questa dichiarazione è del resto alla base dell’imitazione intesa in senso letterario, da sempre concepita non come copia servile dei modelli classici, ma piuttosto un superamento di questi. Quando perciò mi appresto a scrivere un racconto, un romanzo oppure una poesia, dopo aver avuto l’idea generale del testo, amo dedicarmi per qualche settimana alla lettura d’altri testi che, per un motivo oppure per un altro, ritraggono la realtà oppure utilizzano uno stile che possono aiutarmi a sviluppare meglio (e a darmi anche maggior coscienza) della mia idea.
È così che casualmente mi sono imbattuta nel libro di Truman Capote, Si sentono le muse. L’autore racconta le vicissitudini di una band di musici afro-americani in viaggio per esibirsi a Mosca nel 1955. Benché all’epoca non fosse un giornalista, Capote ha documentato lo spettacolo per il New Yorker, narrando il tragitto percorso dalla compagnia americana che, da Berlino, con un treno diretto a Leningrado, arriva in URSS per presentare l’opera di Gershwin, Porgy and Bess. Durante tutto il percorso e fino all’arrivo a destinazione, Capote prende appunti e traccia un ritratto della Russia comunista, vista dagli occhi di un «Occidentale». Nel treno sembrano scardinarsi tutte le regole del bon ton americano. Gli scompartimenti sono misti, il cibo mediocre, gli addetti ai lavori indifferenti. Certo, il fatto che gli invitati, oltre all’essere americani, siano oltretutto dei neri «civilizzati e colti», che parlano correntemente «quattro lingue», crea secondo Capote ancora più scalpore. Con ironia, malizia e un pizzico di provocazione, l’autore lascia scivolare un dettagliato e minuzioso diario di viaggio. N’esce fuori una narrazione a tratti stilizzata, manierata, che ha fatto ridere buona parte dell’America quando per la prima volta, appena la troupe rientrata in patria, il resoconto è stato pubblicato in due puntate sul “New Yorker”.
Si sentono le muse è pieno di clichè sui Russi causati dall’indottrinamento a cui era stata sottoposta l’America durante gli anni della guerra fredda. Dietro questa apparente goffaggine, dovuta ai tanti luoghi comuni, l’autore sa però rivelare l’arte del racconto. Nella sua narrazione, nessun elemento sembra essere inutile e distogliere l’attenzione del lettore. Ogni dettaglio appare motivato dalla necessità di restituire un’atmosfera e di dare indicazioni sufficienti per non perdersi nel testo. Questo «romanzo-verità», così come l’ha definito l’autore, oltre ad abbozzare uno dei primi scambi culturali tra la Russia e gli Stati Uniti avvenuti durante il periodo della guerra fredda, ha il merito della leggiadria. Italo Calvino aveva posto la Leggerezza come valore fondamentale nel fare letterario, il primo della lista delle Lezioni americane, in quanto «sottrazione di peso». Credo lo stesso discorso valga per Capote. L’autore procede per sottrazione, non per addizione. Rimane l’essenziale, che non è mai troppo, e che lascia la mente libera di vagare, l’immaginazione abile a ricostruire i tasselli lasciati opachi nella narrazione.
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