Letture di una militante poetica // #1. Virginia Woolf, Peter Handke
Ogni lettore ha le proprie manie ed un metodo personale di lettura. C’è chi prende tempo e respira silenzi interminabili tra una pagina e l’altra. C’è il lettore che ama divorare romanzi, quello ingordo che ne inizia venti e ne finisce uno soltanto e quello che terminatone uno, aspetta un anno prima di prenderne un altro.Dichiarare le proprie letture in quanto poeta è affar rischioso. Si scoprono le proprie carte, si rivelano i modelli, e ci si attinge ad andar contro il celeberrimo topos (!) del genio creatore, colui che già sa in nuce l’atto poetico, senza aver bisogno di leggere, per metter a punto la sua Gesundkunstwerk, diretta ispirazione dell’energia molteplice dell’universo.
Ludovico Ariosto, per fare un esempio, si dilettava a ribadire la propria ignoranza poetica. Non voleva passare per un lettore. Voleva essere (e fu, del resto e con tanto di chapeau) poeta. Le ricerche sulle fonti dell’Orlando furioso hanno però messo in luce la sua profonda conoscenza dei classici e del genere cavalleresco, necessaria per poter riprendere le innumerevoli storie lasciate in sospeso dai tempi di Turpino. E ancora una manciata di decenni or sono, il poeta Sandro Penna esclamava la stessa affermazione di profonda ignoranza, cimentandosi di rotocalchi e di (auto)ironia.
Vorrei poter dire la stessa cosa, e vedere la mia scrivania ridursi a un tavolo di legno grezzo, una pagina ed una penna poggiatevi sopra. Invece, ogni qualvolta mi accingo a scrivere, mi trovo sommersa da libri, fogli sparsi che naufragano tra i vari appunti, i post-it a segnalarmi altri volumi ancora da consultare, articoli web aggiunti ai preferiti in attesa di essere setacciati. In quanto lettore, sono ingorda e vorace. Impaziente, amo leggere a caso la prima pagina che mi capita sottomano non appena acquisto oppure ricevo un libro. Ho periodi in cui un libro al giorno basta appena a sfamarmi, e momenti dove ho bisogno di affondare la mia testa in un profondo silenzio mentale. Allora smetto di leggere, e inizio a camminare.
È stato così recentemente, quando mi sono imbattuta in un libro di Virginia Woolf che non conoscevo, dal titolo Time passes. Mi trovavo in una libreria da poco aperta da un amico francese, le thé des écrivains. Lou Reed era stato invitato a presentare un libro di fotografie. Nell’attesa, mi sono seduta su di una delle innumerevoli poltroncine che cospargono il negozio, ed ho iniziato a sfogliare il testo di Virginia Woolf. Il racconto è un estratto da Gita al faro, mai integrato al romanzo e pubblicato in Francia con il titolo di Le temps passe. Si tratta di una storia breve che narra la vita notturna degli oggetti abbandonati nella casa al faro. La diegesis è mera descrizione dello spazio, che si fonde con il riverbero della notte e con il rumore del mare del Nord. Stranamente non ho aperto il libro a caso. È stata la prima pagina, l’esordio, ad attirare la mia curiosità: “It grew darker”. La frase mi è apparsa come un chef d’oeuvre. Entrava in medias res nella narrazione, con un moto improvviso, secco, di una precisione chirurgica. Immediatamente la stanza dove stavo leggendo era diventata buia: i libri e le persone che mi circondavano erano state imbevute nella notte. Il discorso narrativo proseguiva con tono lirico, ed ogni parola aveva una risonanza misteriosa e molecolare: “Clouds covered the moon; in the early hours of the morning a thin rain drummed on the roof, and starlight and moonlight and all light on sky and hearth was quenched”. (V. Woolf, Time passes, p. 12). Virginia Woolf mi ha rivelato in quel momento l’arte dell’esordio. La sua penna si era trasformata in bisturi, per incidere le impressioni, le atmosfere ed i sentimenti nelle pagine.
Peter Handke, con il suo Une année dite au sortir de la nuit, mi ha teso un tranello simile. Il risultato alla lettura si è rivelato però opposto. Lo scelsi per curiosità. Passando in libreria, aprendo a caso il testo, mi sono imbattuta in tanti pezzi di dialogo sparsi. E profondamente deludenti, devo aggiungere. Forse sono troppo severa, e sto passando accanto ad un capolavoro, senza percepirne il senso. Rimane però l’impressione d’estraneità, di distanza e soprattutto d’indifferenza che emana il testo. Non ci sono vincoli di responsabilità, tra l’autore e il lettore. Il testo non implica alcun “impegno”, comporterebbe un rischio troppo grande: il sentire, e chissà, fors’anche l’amare. E così ecco incombere la noia, pagina dopo pagina Handke sembra portarmi «da nessuna parte». I frammenti che tanto mi avevano entusiasmata, invece di accompagnarmi in quell’altrove misterioso che mi affascina nella lettura, rimangono sterili, senza vita e senza posa. L’uno dopo l’altro, compongono un puzzle di non-sens, triste e sciatto.
Alla lettura quasi contemporanea dei testi di Woolf e di Handke, due tasselli fondamentali sono emersi in materia narrativa: l’importanza dell’esordio e l’attenzione che qualsiasi autore dovrebbe portare alla struttura del testo. L’esordio equivale alla porta di un palazzo. Annuncia, presuppone, cela, suggerisce e lascia finalmente entrare il lettore nei corridoi dell’azione narrativa. Lo sviluppo del testo, sia esso romanzesco oppure poetico, implica invece la struttura. Qualsiasi destrutturazione e frammentazione non può esimersi dal mettere in atto la pratica della costruzione, prima della distruzione. Il frazionamento del discorso poetico deve passare per l’impalcatura lirica. Questi due moti partecipano al piacere del testo, all’amore della lettura, grazie all’effetto d’attesa che producono.
L’autore diventa così un seduttore, ed io lettore assaporo la delectatio morosa propria di ogni buona letteratura.
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