“La morte di Balzac” di Octave Mirbeau
Recensione di “La morte di Balzac” (Skira) di Octave Mirbeau.
Nel 1907 Octave Mirbeau scrisse un’opera che voleva essere un omaggio letterario al grande scrittore, Honoré de Balzac, perché solo chi avesse conosciuto profondamente l’uomo, avrebbe potuto scrivere della sua vita e degli ultimi tragici istanti solitari. Il gusto “pour le morbide” risponde forse a un’esigenza tipica del nostro tempo di voyeurs, il piacere di restituire i particolari più scabrosi o scandalosi dell’esistenza di un genio, ma prima di tutto “un grand homme”. Ma chi è “un grand homme”? Mirbeau confessa di amare soprattutto la parte in ombra, ciò che si nasconde dietro un talento letterario straordinario. Devono per forza coincidere pubblico e privato? Il lato pubblico di un uomo così noto deve necessariamente rispecchiarsi in un privato irreprensibile? Tanta fama dovrebbe corrispondere a una vita virtuosa, onorata e rispettabile. In realtà non è così. Parafrasando Octave Mirbeau, ciò che ci appassiona maggiormente di uno scrittore sono i suoi peccati, e noi nella veste di ammiratori-lettori “nous devons l’accepter, l’aimer, l’honorer tel qu’il fut”.
Occorre cogliere l’essenza di un gaudente che gustò pienamente la propria vita senza mai tirarsi indietro. Un uomo che scommise, rischiò e spesso perse clamorosamente; non si risparmiò in nessuna impresa. E visse costantemente al di sopra delle proprie possibilità, come un funambolo sospeso nell’aria.
Tutti conosciamo l’autore della Commedia umana, opera grandiosa e, al tempo stesso, brulicante di vita in tutte le sue forme; Mirbeau impiega immagini evocative per descrivere l’operosità dell’artista: “un permanent foyer de création comme des laves en activité dans un volcan”. La scrittura per lui era “un labeur de forçat”: condannato a scrivere egli non si è riposato il settimo giorno. Come un Dio onnipotente, creò tanti personaggi con la sua penna: l’ambizioso Lucien de Rubempré, il barone de Nucingen, l’avaro Grandet, papà Goriot. E forse, lui stesso, ne vestì i panni; avido di vita e di passioni, esplorò appieno la natura umana.
Capitolo a parte va inaugurato per il rapporto di Balzac con le donne, egli intratteneva liaisons amorose: le donne lo amavano, le conquistava con la parola. Unica eccezione fu la sorella con cui non si intendeva molto, petite âme bourgeoise, ebbe con lei un rapporto sterile e superficiale limitato alle quotidiane richieste di denaro.
Madame Hanska, la donna che divenne sua moglie, era una grande ammiratrice. L’étrangère visse con Balzac non già una relazione d’amore, ma un romanzo favorito dalla distanza e dall’immaginazione. Si incontrarono appena quattro volte in quindici anni, ma queste due anime fin troppo letterarie, intrapresero una corrispondenza che alimentò il più meraviglioso dei suoi romanzi.
Non è un caso che Octave Mirbeau lasci la parola a un pittore mediocre Jean Gigoux, per raccontare gli ultimi istanti di vita dello scrittore realizzandone un ritratto/biografia. Egli ha veramente conosciuto Balzac e il destino gli ha giocato uno scherzo crudele: diventare l’amante di Mme Hanska, nella camera accanto a quella in cui il marito stava esalando l’ultimo respiro. Questo strano personaggio, che confidò a Mirbeau ciò cui aveva assistito come testimone oculare, ebbe la tentazione di entrare in quella stanza e osservare il moribondo per rappresentarlo sulla tela: ma il coraggio gli mancò.