“La fabbrica del panico” di Stefano Valenti
Recensione di “La fabbrica del panico” (Feltrinelli, 2013) di Stefano Valenti.
Dalle montagne impervie alle pianure industrializzate, grigie e disumane. Questo il percorso che intraprendono i personaggi raccontati ne “La fabbrica del panico”: un viaggio nel dolore della fabbrica – la vera protagonista – e origine di tutti i presentimenti di paura e di morte. Ore e ore di turni lavorando metalli e amianto, tra polveri e vapori cancerogeni che porteranno centinaia di uomini a dover confrontarsi con la fine ultima.
Stefano Valenti, nato nel 1964, ha lasciato la Valtellina per lavorare come traduttore editoriale a Milano, è un esordiente nel mondo del romanzo. Un esordio che però non passerà inosservato. La condizione operaia viene descritta in modo semplice, fuori da qualsiasi cliché. Non vi è spazio per la propaganda, ma per un racconto vissuto sulla propria pelle e su quella della propria famiglia. Racconti intimi, sensazioni, paure unite a un accurato lavoro di ricerca. Alla fine dell’opera l’autore precisa che tutto ciò che si è letto è tratto da una storia vera, o meglio dalle storie vere di chi ha visto il proprio marito o padre scarnificati dalla catena di montaggio. Un viaggio nella mortificazione e mercificazione, nei pericoli dell’amianto subiti da persone innocenti, masticate dalle ruote unte di una gerarchia severa e industriale.
Il tutto è raccontato con uno stile asciutto, molto veloce, quasi teatrale nella sua brevità di sintassi. Una delle più grandi vergogne italiane raccontate da una penna in apparenza oggettiva e distaccata. Impossibile non rimanerne coinvolti.
Non ci si aspetti un romanzo che faccia leva sulle scene più crude per vendere lacrime, quanto meno un articolo giornalistico vero e proprio. Quello scritto da Valenti è un ibrido, un romanzo di narrativa, dalla lettura veloce, carico però di una funzione sociale importante: ricordare.
Il libro è una raccolta di testimonianze al processo, una raccolta di impressioni e paure, una valvola di sfogo per le ingiustizie sociali, per le sofferenze quotidiane, ma sempre con grande dignità. Non ci sono piagnistei, solo grandi verità con piccole parole. Quando uno dei personaggi del libro chiede al protagonista perché voglia scrivere quest’opera, Valenti risponde di essere la persona più adatta, dopo gli operai. Allora lo si può definire anche come un libro nato dal bisogno.