Jeu de vivre: ecco “Errata Coccige” di Andrea Viviani
Le poesie di Andrea Viviani sono, come tutte le poesie del mondo, colme di tensione.Ma – forse – agli occhi – del malcapitato lettore – che si poseranno sulle pagine limpide ed ordinate di questo libretto poetico di una sessantina di pagine (curato con maestria e attenzione dalla sempre più che sorprendente e gradevole casa editrice Ensemble, prezzo 12 euro) emergerà un dato di fondo, un’endiadi, un ossimoro che – chi scrive è convito – riassume perfettamente la fenomenologia alla base della poetica e del carattere del nostro autore: un “gioco serio”. Eh sì. Credo che l’espressione un gioco serio, o un gioco complesso, riassuma con sommaria, ma incisiva, efficacia il meccanismo poetico che si instaura nella struttura di ogni singolo componimento, o più o meno ogni componimento: dense di pathos sono, infatti, le poesie alla memoria del genitore scomparso (si legga 19 marzo).
Attenzione però – ed un sentore di avvertenza che si intravedeva già nella chiusa del precedente periodo di questa recensione – perché non si tratta di un’ironia superior, di una briciola fatta cadere dall’altezza di un volo maestoso a chi è deputato a raccogliere: no, non è nulla di questo, tantomeno una risate burlesca in un’osteria fumosa, in un pub arrogante o tra i gradini di uno stadio. È più approfonditamente lo sguardo attento alla realtà contingente di ogni giorno, alla presa in giro – credo il titolo sia esemplificativo – di chi sa, di chi convive con il desiderio di trasmettere senza pedanteria; sarà semmai compito del lettore (malcapitato come sempre, per carità) cogliere il sottilissimo filo, il tenue indizio, la fine “sentenza” e cercare di giungere fino alla grande matassa dello humour con cui si esprimono al meglio le capacità del poeta. Poeta già. Parola grave e difficile da usare, ma inevitabile per tutto ciò che è stato scritto in versi (almeno da D’Annunzio in poi) e che ha la necessità primigenia di indagare qualcosa, di manifestare, di testimoniare (da Omero in poi).
Giuseppe Crimi nella postfazione al volumetto coglie con perfetta sintesi il senso della quotidianità di Viviani: «soprattutto non lascia sfuggire i gesti dalle trame degli occhi. Viviani va alla ricerca della gentilezza, è portato per naturale inclinazione ad accarezzare […] gli errori, suoi e degli altri» e forse il carattere più sorprendente della poetica è incarnato dalla sterzatura, dall’improprietà non metaforica, non sintattica (Crimi la definisce «pacata»), ma a mio particolarissimo avviso del tutto morfologica, incentrata cioè sulla parola e sulla forma d’essa, sulla vicinanza e somiglianza di parole: «A passo a passo / muto muta», o si veda il «”Dormirti”» o il finissimo verso: «giri, girovaghi, esperisci, patisci» per i quali verrebbe quasi voglia di scomodare una retorica medievale a caso cercando di incasellare la manifestazione di questo jeu de vie in termini antichi e desueti come, ad esempio, l’annonimatio, dimenticando che dietro l’uso di queste figure di parole si nasconde la poesia ma, soprattutto la necessità, per un versificatore, di annebbiare senso e ritmo di rendere la voce, le proprie trame migliori e degne di un’iniziazione.
E se dovessimo trovare un difetto sarà in quella sintassi pacata che ricorda l’ultimo Montale; ma era probabilmente l’unico modo possibile per renderci partecipi di un flusso di vita tanto complesso e interessante da far sì che il libro si legga tutto di un fiato. Allora, accetteremo le scuse dello stesso poeta:
La difficoltà di un imperfetto.
Ancora troppo presto,
non volermene,
per un “ero”.
Da lettore, non te ne vorrò.