“Invece sono fuoco” di Valeria Gentile
Recensione di “Invece sono fuoco” (Ensemble, 2012) di Valeria Gentile.
“Invece sono fuoco”, pubblicato da Ensemble Edizioni (prima ed., aprile 2012) ci introduce nei versi saturi della poetessa raminga, Valeria Gentile, lasciando al lettore, ancora ignaro, il compito di presagire i prodromi dell’avverbio.
L’autrice ci scaraventa, senza preavviso, nel suo mondo fatto di “voci, passi, tavole imbandite, stracci”, procede sincopata e malferma sino alla consapevolezza di un raggiungimento che non è mai quiete immota: “sento riparo, tregua/ antidoto al groviglio”.
In mezzo ci spiazza con i suoni stridenti delle dissonanze (Trascinami viaggio/ strisciami addosso) o carezza i sensi per mezzo di parole lisce, come l’acqua di una goccia (Gocce/ come semi d’umida speranza, fresca/ Scorrono su di me leggere). Ma Valeria è fuoco, è soprattutto fuoco, “liquida energia folle di forza”, ferma a mirare i grilli che “semplicemente svaniscono”, nella notte di un’estate magica, caduca, come ogni estate che ripensiamo a ritroso, adulti di un’adolescenza mai conclusa, quelle nelle quali ancora non ci danno del lei (“M’incammino”).
Trovo la convivenza di Apollo e Dioniso, come direbbe Nietzsche, della dicotomia cioè fra un impulso volatile, eterno, e lo schiacciamento (non) remissivo nei confronti dell’immanenza un po’ vigliacca, deludente, avara, nei versi svelti, ma riflettuti, della poetessa Gentile. Le sue immagini, mai banalmente descrittive, evocative anzi di un universo altro che si dipana attraverso le parole sapientemente calibrate, materiche, diventano elementi concreti davanti ai nostri occhi: sentiamo l’acqua che si avventa sul fuoco e si ritrae inerme, la terra che “mastica, la sarda notte”, l’aria di un ricordo, affiorato per caso, o di un intimo, piccolo dolore che si accende vivido nel dubbioso presente.
Ravviso nella metrica spiazzante, danzante, direi alata, antidoto all’abulia di un salotto borghese, l’esigenza di non restare fermi a guardare la vita che trascorre: Gentile scorge davanti a sé la siepe leopardiana, ma tenta di individuare il guado familiare di una “mano calma” sulla propria esistenza. C’è tutta la moderna consapevolezza del fallimento di qualunque presunzione antropocentrica, nelle liriche di Valeria. Manca tuttavia la rassegnazione nichilista dell’arte che nega se stessa, la propria essenza catartica.
Perché, invece, lei è fuoco.