Intervista a Demetrio Paolin, autore di “Non fate troppi pettegolezzi”
Intervista a Demetrio Paolin, autore di “Non fate troppi pettegolezzi”, bel libro uscito per LiberAria che cerca di legare le vicende umane di Salgari, Pavese, Levi e Lucentini.
“Non fate troppi pettegolezzi” è un libricino in cui, idealmente, Demetrio Paolin, fa sedere allo stesso tavolo quattro autori apparentemente diversissimi tra loro: Salgari, Pavese, Levi e Luncentini.
Ad accomunarli non c’è uno stile o un gusto letterario simili tra loro ma una città, Torino, che sia di appartenenza o no poco importa, e la scelta di porre fine ai propri giorni con il suicidio.
Non una ma quattro storie quindi che si intrecciano con lo sguardo dell’autore che va alla ricerca dei loro luoghi e della loro aria che qua e là forse ancora si respira. In mezzo, infine, c’è più di un secolo di storia, con i suoi oggetti e con le sue speranze di domani.
Si parte dalla casa di Emilio Salgari. Il mio professore di Letteratura Italiana all’Università diceva che se lo scrittore fosse nato in Inghilterra sarebbe ricordato come uno dei maggiori autori del Novecento. Nel suo “contro codice” si chiedeva, tra l’altro, come avesse fatto l’autore di tanti libri d’avventura a raccontare continui viaggi senza mai uscire da Torino.
Per te che vivi e lavori a Torino com’è considerato Salgari? Sei partito da lui solo per una questione temporale?
Ovviamente la letteratura, come il resto delle scienze, non si fa con i “se”. Quindi non so se il tuo professore avrebbe avuto ragione. Io continuo a pensare leggendo Salgari e le sue opere che idealmente Emilio fosse un autore tardo romantico, più ottocentesco che novecentesco. Il ‘900 è il secolo di Joyce, di Svevo, di D’Annunzio (i primi tre nomi che mi vengono in mente) e penso che Jolanda la figlia del Corsaro Nero o il ciclo di romanzi su Sandokan siano fuori tempo. Su come sia considerato Salgari a Torino ti racconto una cosa secondo me simbolica. Nel luogo dove è morto sorge oggi un parco avventura, dove se tu vuoi porti i tuoi bimbi a fare le prime esperienze di ponte tibetano; a me questa cosa colpisce perché in un certo senso Salgari che ha sempre pensato e immaginato la giungla senza mai vederla e ora qualcuno ha pensato nel luogo della sua morte di farci un parco di divertimenti di ambiente esotico.
Sono partito da Salgari per due ragioni, la prima è squisitamente temporale (Salgari è stato il primo a togliersi la vita); la seconda è soggettivamente temporale ovvero riguarda la scoperta e lo studio di Salgari, che è stata per me un’esperienza tarda. Ho incominciato a leggere la sua opera a 26 anni (a laurea ottenuta e percorso di studi terminato). Quindi Salgari non ha esercitato su di me quella fascinazione tipica dei romanzi d’avventura letti in giovinezza. L’ho affrontato e letto con il piglio del lettore smaliziato; nonostante questo mi ha colpito di lui la potenza immaginativa e sentivo nei suoi suoi romanzi il mistero de l’io che scrive, perché sono convinto che il più grande lascito di Salgari alla letteratura italiana sia, per fare il verso a Contini, Salgari come personaggio dei suoi romanzi.
Spesso si dice che il suicidio è una cosa per ricchi. Salgari che era poverissimo come si poteva “permettere” questo pensiero?
Non so se il suicidio sia una cosa per ricchi. C’è un libro molto bello di Jean Amery Levar la mano su di sé (Bollati&Boringhieri) che in un certo senso ci racconta una ipotesi diversa. Comunque credo che Salgari percepisse il suicidio come un “atto rituale” come qualcosa di religioso. Il modo con cui lo ha pensato, il biglietto che ha scritto mi fanno pensare che lui la sentisse come una sorta di definitiva “messa in scena” dell’io, del suo io di scrittore. Per questo nel libro faccio una sorta di immaginazione in cui sovrappongo Salgari a Sandokan e mi immagino l’ultimo giorno di vita della Tigre di Monpracem, e lo descrivo simile a Salgari nella ferma volontà di morire di propria mano e eroicamente.
C’è un libro che ti lega a lui?
I libri a cui sono più legato sono appunto i cicli in cui è presente Sandokan, perché hanno rappresentato per me lettore vecchio la nostalgia dell’infanzia che io non ho mai avuto. C’è poi questa idea del bene che trionfa, del personaggio canaglia che alla fine è buono, che mi ha sempre affascinato perché lontana dal mio modo di vedere il mondo e di concepire i personaggi delle mie storie. Il mio mondo narrativo è spesso dominato da un male imperante e i personaggi sono persone comuni e normali che si trovano quasi senza volerlo a compiere azioni di male.
Facciamo un passo indietro. Come ti nata l’idea di questo libro? Sapresti spiegarlo a chi non sa niente del suo contenuto?
Il testo è nato molto naturalmente da una serie di chiacchiere con Alessandra Minervini, la mia editor. Spesso e volentieri mentre parlavamo ad un certo punto io incominciavo a raccontare la storia degli scrittori che amavo e la legavo ai luoghi in cui avevano vissuto, che poi erano gli stessi miei (Torino, le langhe, le colline). A forza di discutere un giorno lei se ne è uscita fuori: Ma perché invece di portare solo me in giro per Torino e raccontarmi degli scrittori che ami non lo fai per tutti? Ci ho pensato un po’, all’inizio ero un po’ titubante, ma alla fine ho detto sì. E ne sono felice.
Pavese. Mi piacciono i collegamenti che fai intercorrere tra vicende umane e letterarie e mi fa piacere la citazione de I dialoghi di Leucò, libro che ho amato moltissimo. A colpirmi invece il passaggio su qualcosa detto da Pavese che non conoscevo: “Le donne come i tedeschi sono i nemici”. Qual è secondo te la sua opera più importante e in quale si sarebbe potuto capire la scelta che ha preso?
La risposta è non lo so, anche se la più facile sarebbe Il mestiere di vivere, ma in realtà non lo so. La scrittura di Pavese è sempre una scrittura in cui la vitalità è così potente che diventa il suo opposto. Le opere di Pavese, per usare una metafora che uso nel mio testo, sono come le lampadine che stanno per bruciarsi. La loro resistenza è così luminosa che preannuncia il suo spegnersi. La frase che tu citi è secondo me essenziale per comprendere come Pavese è uno scrittore de l’altro, e dell’incontro con l’altro.
Preferisci il Pavese romanziere o poeta?
Ho dato nel libro molto spazio al poeta, perché mi sembrava interessante dar seguito alla sua volontà di essere riconosciuto come colui che “ha dato poesia agli uomini”. Io credo che la sua opera più importante siano di Dialoghi, che un po’ come le Operette leopardiane, sono difficili da inserire in un genere. Direi che preferisco Pavese come scrittore.
Ci siamo riusciti, con lui, a non fare pettegolezzi?
Direi di sì, con la sua vita e le sue opere è difficile, ma credo che ce l’abbiamo fatta.
Primo Levi è per tutti l’autore scampato alle follie del Lager, il sensibile scrittore di Se questo è un uomo. Ma in fondo è molto altro, forse anche un grandissimo poeta. Per lui è stato impossibile sopportare il peso della memoria. Mi chiedo sempre se per evitare che ripetano orrori del genere è meglio ricordare o dimenticare.
Quant’è importante la sua opera oggi?
C’è una poesia di Borges ne L’elogio dell’ombra, in cui lo scrittore argentino immagina Caino e Abele che si incontrano in un ipotetico aldilà. Nessuno dei due ricorda chi ha ucciso chi e sembra che questa smemoratezza sia salvifica per entrambi. Levi è grande conoscitore dei meccanismi della memoria: e sa che nessuno di noi ricorda tutto, l’oblio serve per discernere alcuni ricordi da altri. Il rischio che si corre sarebbe altrimenti la pazzia (è quello che capita al protagonista di un altro bellissimo racconto di Borges di Funes, el memorioso). Proprio per questo motivo l’opera fondamentale e cardine da cui partire per comprendere Levi è I sommersi e i salvati perché in quel libro l’autore torinese mette in campo tutte le sue proprie capacità di studio e di scrittura per fornire una sorta di griglia per comprendere alcuni temi fondamentali per la letteratura e la scrittura dell’oltraggio. Penso ai capitoli sulla vergogna, sulla memoria o sulla violenza inutile.
Secondo te come avrebbe vissuto la querelle Priebke?
Credo che l’avrebbe vissuta con molto pudore, ma nello stesso tempo con durezza. Levi viene scambiato per un uomo mite, ma i suoi giudizi e i suoi atteggiamenti verso i suoi carnefici non sono da perdonatore anzi. Basta leggere il capitolo de I sommersi e i salvati in cui descrive e tratteggia il suo dialogo con i lettori tedeschi per capire che certamente sarebbe stato meno indulgente di molti intellettuali sulla figura di Priebke e sulla loro pietas verso il corpo morto di un vecchio sì ma che comunque si era macchiato di crimini così abnormi che lo ponevano fuori da qualsiasi alveo di civiltà e di rispetto.
Lucentini è un autore che conosco pochissimo, se non per alcuni, pochi, libri scritti a quattro mani con Fruttero. Mi andrò a vedere gli spezzoni televisivi che consigli nel testo. Che scrittore era?
Lucentini è un grande autore poco letto e poco conosciuto, ma ha scritto due libri bellissimi (I compagni sconosciuti e Notizie dagli scavi). Il primo dei quali secondo me dovrebbe diventare insieme a La casa in collina di Pavese, Una questione privata di Fenoglio, Se questo è un uomo di Levi un testo fondamentale per comprendere cosa è stato il nostro dopoguerra, non solo dal punto di vista letterario, ma anche antropologico e umano. Lucentini, lo dice bene Domenico Scarpa, è uno scrittore su nulla. La maggior parte dei suoi testi sono dialoghi, ma è proprio in questi lacerti che lui riesce a esprimere lo spirito del tempo, il dissolversi del sogno umanistico, il precipitare di tutto verso una vita vuota e verso il nulla.
Quale tra questi è un tuo autore di riferimento?
Tutti e quattro e in modo differente, anche se quello che sento segretamente più vicino, non tanto come scrittore, ma come uomo è Pavese.
A me ha colpito molto il suicidio di Monicelli. C’è qualche altro “caso” degli ultimi anni che ti ha toccato le corde del cuore?
Il suicidio di Monicelli colpì molto anche a me, tanto che scrissi un articolo pubblicato su Affari Italiani. Negli ultimi tempi mi ha colpito molto uno scambio di tweet (si dice così?) tra la figlia di Kurt Cobain e Lana Del Rey. La Del Rey aveva dichiarato in un’intervista che pensava al suicidio e la figlia di Cobain le ha scritto parlando della sua difficoltà a 20 dalla morte del padre di comprendere quello che era successo a lei e a sua madre dopo quel suicidio. Mi ha colpito la tristezza che traspariva in quei pochi caratteri. Ho pensato mentre leggevo che avrei voluto abbracciarla.
Se c’è qualcosa che vuoi aggiungere dillo adesso.
Mi sembra di aver detto già troppo e abbastanza.
Grazie mille per l’intervista e in bocca al lupo per tutto.
Grazie a tutti voi per l’attenzione e la pazienza di essere arrivati al fondo.
[…] e con le sue speranze di domani". Per leggere la recensione completa a Demetrio Paolin cliccate su Patria Letteratura. […]