Intervista a Félix Luis Viera
Félix Luis Viera, nato a Cuba, precisamente a Santa Clara nel 1945, è uno scrittore cubano esule cubano ed a oggi residente in Messico.Molti dei romanzi di Félix Luis Viera hanno più volte vinto il Premio della Crítica, il suo libro di racconti Las llamas en el cielo è considerato un classico del genere nel suo paese. Il suo romanzo sull’esperienza di detenzione all’ UMAP Un ciervo herido è stato tradotto in più lingue ed ha avuto una diffusione internazionale (in Italia è uscito con il titolo Il lavoro vi farà uomini, edizioni l’ Ancora del Mediterraneo).
La sua ultima raccolta di poesie La patria è un’arancia è stato pubblicato in Italia da Il foglio letterario.
Paolo Rigo – Prima di tutto la ringrazio per l’intervista. Se scorriamo i suoi versi il tema essenziale è “Cuba e la politica”. Da sempre gli scrittori sono stati legati alla politica, per l’Italia penso all’archetipo della nostra letteratura Dante Alighieri, oppure ai siciliani, nel secolo scorso, specialmente in Sudamerica molti scrittori, cubani e non, come ad esempio Pablo Neruda sono stati molto vicini alla politica, mi chiedo: la poesia può anche parlare di politica? Ed oggi a chi?
Félix Luis Viera– Credo che la poesia, come le altre arti, può avere ed ha un carattere sovversivo, e ciò include un livello politico e sociale, e il sociale, chiaramente, è strettamente legato al politico.
Però ogni poeta ha un proprio sostrato creativo, e in questo modo alcuni poeti possono entrare nelle questioni politiche più di altri. Alla fine, la politica, e soprattutto in un regime stalinista e paranoico, come quello che c’è Cuba, è ovunque.
Ci sono, per esempio, montagne di poesie che denunciano i mali di molte società: la povertà, la corruzione, la diseguaglianza, la disumanizzazione e ect. e lo fanno con un valore estetico incontestabile.
Un’altra cosa penso che sia il “manifesto politico”, quei versi che giustificano o attaccano una politica definito, un certo governo; questi, spesso, assomigliano di più ad un pamphlet.
Paolo Rigo – Cuba è la sua patria, però, oggi che patria è? Ha una speranza di tirarsi fuori dalla politica dei Castro?
Félix Luis Viera – Non so di nessuna dittatura che è arrivata all’eternità. Fidel Castro, nel 1991, allargo l’agonia del popolo cubando quando decretò ciò che chiamò, con tanto cinismo, il “Periodo Speciale”, con il quale iniziò l’età di massima penuria che conobbe il popolo cubano. La crudeltà di Fidel Castro non ha limite. Lui sapeva, come tutto il mondo, che il sistema stalinista non funzionava, però il suo delirio di potere, la sua brama da dittatore, lo ha fatto andare contro la logica. Chiaro, ripeto, la dittatura cubana, è elementare, un giorno terminerà.
Paolo Rigo – E come sarà Cuba nel futuro?
Félix Luis Viera -Passeranno molti anni perché Cuba, in seguito alla fine della dittatura castrista, abbia recuperato, per ritornare, come si dice, ad essere un paese “normale”. Dall’economia fino alla cultura popolare, all’etica, all’individualità, sono tutte andate distrutte per passare per il sentimento di appartenenza ad un “tutto”.
Paolo Rigo – Una domanda sulla tua vita: UMAP, come fu quest’esperienza?
Félix Luis Viera -Un esempio: quando noi che fummo lì ci incontriamo, non riusciamo a parlare di questo, questa è solo un modo per far capire quale fu l’impatto che soffrimmo. Via, come non si può cancellare per niente il passato così vorremmo negarlo in tutte le sue forme.
Ripeto due questioni che ho già detto in un’altra intervista: 1) Forse la crudeltà più grande è strappare un figlio dalla madre e lasciarla lì senza che non sappia nemmeno dove lo conducono. 2) Credo che il peggio delle UMAP viene dopo, quando si esce da li; allora devi trascinarti quest’esperienza per tutta la vita. Questo significa, quindi, che per tutta la vita sarai un’ UMAP, con tutte le limitazioni, con tutto il disprezzo, questo significava e questo significa. Cioè, ora e per sempre, sarai una vittima di questo sistema. Il fatto di essere stato nelle UMAP è una croce che si porta per tutta la vita. Quello che voglio dire è che loro, i boia, la dittatura, invece di chiedere scusa, ti manterranno un escluso, uno stigmatizzato.
Negli accampanti delle UMAP dove stavo, non conobbi nessuno di quelli che si chiamavano confinanti, perché erano, così si diceva, persone cattive; erano buoni, non avevano fatto nulla per meritare di stare lì.
Paolo Rigo – Molti scrittori cubani furono detenuti per l’UMAP, ad esempio, penso a Reinaldo Arenas, quale fu il tuo rapporto con Arenas e con gli altri scrittori cubani?
Félix Luis Viera – Non conobbi di persona Arenas, ebbi alcuni buoni pareri, e scritti, letterari da lui, e lui li ebbe da me, per mezzo di un amico comune, Carlos Victoria, un eccellente scrittore cubano che morì in esilio a Miami nel 2007, anche lui una vittima, e molto, del castrismo.
Paolo Rigo – Come uscì da Cuba?
Félix Luis Viera – Mi invitarono in Messico, o mi mandarono, per una settimana, nel 31 di Maggio del 1995, ad un’attività culturale che organizzava la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM). Lì, grazie soprattutto a due amici e colleghi, uno messicano y l’altro cubano, ho potuto restare e resistere. Sono stato a Cuba per molto tempo e poi no.
Paolo Rigo – Cambiamo argomento: qual è la metafora più importante del suo libro? Può spiegarla?
Félix Luis Viera – Forse la metafora più importante è quella dell’acquario (es. Poesia 12, ndr). Capitò, era l’anno 1995, ed io ero qui in Messico da poco tempo, che una mia amica mi chiese di accompagnarla a casa di un signore, un suo amico, uno psichiatra. Questo signore si rivelò come un castrista arrabbiato (mi permetto di dire che a Città del Messico ci sono più castrista che a Cuba). Non volle discutere. Osservai che il signor-psichiatra-castrista aveva un bell’acquario in casa. Lo associai alla povertà, alla miseria che c’è a Cuba, dove avere un acquario con tutte le attrezzature possibili -pesciolini, mangime per essi, climatizzazione, eccetera- era impossibile, e mi venne in mente di contrapporre il buon livello di vita di quel signore con il suo fanatismo castrista. Da qui, come si vede, nacque l’idea del libro, di tutto il libro. Se io non fossi andato ad incontrare questo ignorante, La patria è un’arancia non sarebbe esistito. Questa è la vita.
Paolo Rigo – Ed invece dove ha preso quest’ultima metafora: “La patria è un’arancia”?
Félix Luis Viera – L’idea di comparare la mia patria con l’arancia mi venne quando stavo scrivendo il libro. Insomma, l’arancia è una frutta tropicale, dorata, e altre cose così. Volevo riportare la patria ad un frutto e credo che la più rappresentativa fosse l’arancia. Una mela, ad esempio, non può esserlo, questa è un tipo di frutta esotica per i caraibici; non poteva essere la mela, né un’altra la frutta che si doveva associare con la patria cubana. Ed infine, se volevo rappresentare la patria con una frutta, pensai che l’arancia era quella che la descriveva meglio.
Paolo Rigo – Nel suo libro penso che esista una relazione tra la sua generazione, la futura e quella del passato, è un legame culturale o un sentimento, qualcosa che sente dentro?
Félix Luis Viera – Credo che sia una “cosa che si sente”. Anche se, chiaramente, una generazione -un’altra cosa sarebbe una “promozione culturale”- si incatena con le altre.
Paolo Rigo – Una domanda italiana: quali sono i poeti italiani che ha letto?
Félix Luis Viera – Bene, a parte quelli che chiamano classici, ho letto molto poco e solamente poesie sciolte. Non so sé negli ultimi 17 anni la situazione a Cuba è cambiata, però mentre stavo lì, si parlava molto poco della poesia italiana. E in Messico lo stesso si parla poco di essa, sono sincero è la verità.
Paolo Rigo – Ultima domanda di rito: è mai stato in Italia?
Félix Luis Viera – Allora, l’Italia la conosco per il cinema, soprattutto per il decennio del 1960, e molto per la sua musica popolare di prima. Tutto ciò ha lasciato una traccia in me, e sicuramente per queste cose ho una conoscenza media della cultura moderna italiana. No, non sono mai stato in Italia.
Paolo Rigo – Grazie mille per il suo tempo e per l’intervista.
Félix Luis Viera – Grazie a te.