“Intemperie” di Jesùs Carrasco
Recensione di “Intemperie” di Jesùs Carrasco.
Una luce soffusa, una pianura sconfinata. Un bambino che osserva lontano.
Tra atmosfere da fine del mondo e presagi postatomici/postapocalittici di certa letteratura distopica (di cui La strada è l’esempio contemporaneo più calzante) e non solo (ricordate l’aria di “Il vecchio e il bambino”, canzone scritta e cantata da Guccini e portata al successo anche dai Nomadi?), si dipana la narrazione di un libro, Intemperie di Jesùs Carrasco, appena uscito per Salani, che è stato un incredibile successo in Spagna e che, probabilmente, farà parlare di sé in tutta Europa.
Quel bambino che osserva è un bambino che scappa da qualcosa, in un turbinio di suggestioni che però non hanno bisogno di grandi tratteggi di colore.
Tutto è secondario: il tempo e lo spazio, l’amore e la morte, il giusto e lo sbagliato.
Si procede senza sensazionalismi, cercando il calore e la semplicità di una certa umanità primordiale.
Come nella tradizione delle migliori parabole il cammino è metafora di formazione e formazione stessa: con una prosa meravigliosamente cadenzata, il ritmo ti penetra nello stomaco fino a entrare in perfetta simbiosi col protagonista.
Quello che forse è uno dei libri migliori, e più intensi, degli ultimi anni, riprende temi che sono antichissimi e rimandano alla grandissima letteratura (lotta con la natura, dio, sopravvivenza).
C’è tanta polvere in questo libro, una contemporanea Terra desolata, poetica nel suo estremo dolore. Ma c’è tanto altro: c’è lo scontro generazionale, scambio di esperienze (il bambino e il vecchio pastore) e c’è l’attenzione per le cose importante (il bisogno estremo e continuo dell’acqua)
Si procede per sottrazione. Tutto è essenziale, anche troppo. C’è un qualcosa di profondo che ricorda la lirica anglosassone, più che la prosa.