In ricordo di Elio Fiore
In questa data da anni mi sforzo di condividere il ricordo di Elio Fiore, poeta e uomo meraviglioso passato con la discrezione fugace di un’ombra oltre la forma sensibile del Mondo dopo essere scampato ai rastrellamenti nazisti del ’43. Il 27 Gennaio è, da qualche anno, il Giorno dedicato alla Memoria della ferocia nazista, contro le minoranze etniche e in particolar modo contro il Popolo ebreo.
Elio Fiore era famoso presso chi lo conosceva per due cose: per essere il poeta del Ghetto, benché non fosse ebreo che per metà; e ancor più per essere un uomo dall’infinita bontà, e da una dedizione quasi cieca alla religione dei Poeti.
Aveva otto anni quando il nonno materno (cristiano) lo salvò dal destino atroce dello sterminio cui era votata la sua intera famiglia nascondendolo nel sottoscala del suo laboratorio di ciabattino per interminabili settimane.
Da quel giorno, la sua voce non ha mai smesso di ri-pronunciare l’orrore della scena al Portico, il destino inumano deciso per gli altri bambini, i nomi di chi non sarebbe tornato, le urla, i pianti, la rovina di quelli saliti sui treni diretti ai campi di sterminio ( I bambini hanno bisogno, Interlinea, 1999).
Quando l’ho conosciuto, viveva in una piccola casa aperte le porte della quale si schiudeva un’oasi tenace fuori da ogni tempo definito, che accoglieva, nel minuscolo ingresso, una parete gremita di testi ed oggetti: un’interregno di antichi candelabri a sette bracci ed immagini mariane frammiste a fogli, preghiere, ritratti di bambini e poeti.
Volle scrivermi parole generose di apprezzamento e di incoraggiamento sull’incipit di un suo testo che avevo serbato con cura dai tempi in cui, al mio Liceo, era venuto per parlare del Novecento; e della necessità, dell’urgenza di una Poesia militante, consapevole.
In fondo alla dedica, poco sotto il suo pseudonimo (neanche fintamente velato) di leopardiana ascendenza di Ultimo fiore del deserto, appose una doppia datazione: una occidentale, l’altra che andava a decorrere dalla fondazione del Mondo secondo l’ortodossia ebraica. Quella catastrofe lo aveva totalmente affratellato alle vittime, rendendolo omogeneo ai vinti: di più, rendendolo omogeneo ai Giusti.
Ebbe una vita grama, come si conviene agli evangelici passeri del cielo, e fu amico di tutti i più grandi: alunno di Ungaretti, che gli trovò da pubblicare e da lavorare; di Montale: entrato nelle grazie della cui Governante, ne ebbe in dono un cappotto pregiato quando questo morì che conservava gelosamente come una reliquia (Il cappotto di Montale, All’insegna del pesce d’oro, 1996); e di Mario Luzi, che gli fu amico sodale e fraterno e che, in onore della splendida silloge “In purissimo azzurro”(Garzanti, 1986), quando morì – essendo troppo vecchio e malato per presenziare alle esequie – inviò una corona di fiori di un pervinca tanto intenso che a lungo ci si è interrogati sull’effettiva natura di specie e colore arboreo.
Era stato amico degli esiliati Alberti e Neruda, e custodiva in una teca di cristallo una copia dedicata con affetto della prima edizione di The waste land. Aveva attraversato la poesia di Pound con la devozione che si deve al genio ed il dissenso verso chi aveva anteposto il proprio intelletto alla propria umanità.
Elio Fiore era, e nel cuore di chi lo ha conosciuto rimarrà, un ponte tra le energie del Creato, pronto a spendersi nel favorire rapporti, dal suo salotto sommerso di cimeli, lettere autografe, prime edizioni, aneddoti, manoscritti.
Questa sua natura di argonauta della poesia ne ha troppo a lungo messo in ombra la grandezza di poeta, pure dimostrata da pubblicazioni prestigiosissime, e da attestati di stima provenienti dalla più accreditata nomenclatura della poesia e della critica letteraria italiana.
Morì in una sera d’estate, probabilmente poco dopo la telefonata che mi inviò per ringraziarmi – lui me! – di una cartolina con un cielo dolomitico tersissimo, poco prima che potessi consegnargli il mio regalo per il compleanno da poco occorso: un’aurea ginestra tenace e profumatissima, presa contro legge dalle pendici etnee per adattarsi al caldo affatto diverso del suo appartamento a Marconi, nel quale viveva grazie all’interessamento di Nilde Iotti da quando il Portico d’Ottavia aveva smesso di ospitarlo.