“Il volo del calabrone” di Ken Follett
Recensione di “Il volo del calabrone” di Ken Follett.
L’autore gallese Ken Follett è certamente una delle figure letterarie che vanno per la maggiore. Nel corso degli anni ha deliziato una realtà di lettori sempre più numerosa verso grandi epopee, avvicinando persone che con una generica riluttanza approcciavano romanzi storici dei grandi scrittori del passato.
Il segreto di Follett sta in una combinazione di elementi. Innanzitutto c’è una propensione per la struttura classica per la narrazione, poi vi è anche una grande articolazione nei dettagli, con la coscienza che un romanzo è ambientazione. Se si costruisce bene il ‘territorio’ i personaggi si muoveranno, prenderanno vita in quel contesto. In questo senso Follett edifica con precisione le circostanze sociali dei protagonisti, non tanto sotto l’aspetto della coerenza con i fatti storicamente avvenuti – del resto un romanzo ha bisogno di reinventare la realtà, di ‘falsificarla’ in nome di una verità più pregnante -, quanto nella riproduzione della vita e della quotidianità di una determinata epoca. C’è un altro ingrediente, ovvero Hollywood. Il tipo di approccio dello scrittore di Cardiff sta nella capacità di offrire ai lettori un gusto cinematografico, talvolta quasi spielberghiano della narrazione, o comunque cinematografico, e in questo c’è tutta la differenza con i romanzieri del XIX e XX secolo, senza vedere in ciò un elemento di degrado dell’arte dello scrivere, ma una caratteristica come un’altra. Può darsi che sia una cosa voluta o in qualche modo inconscia. Leggendo i capolavori dei secoli scorsi quando si parla dell’epoca napoleonica, della rivoluzione industriale, delle guerre mondiali, si ha la percezione chiara di un gusto, di un’aderenza del vissuto a quell’immaginario sociale e culturale. Victor Hugo per esempio ci restituisce un’esperienza diretta o indiretta attraverso i propri romanzi. Follett si mette al servizio della storia, delle possibilità di documentazione che abbiamo oggi, e in questo c’è un rigore, una grande ricchezza ma anche un’intima umiltà – quella dei grandi – che sicuramente gli appartiene. In lui si avverte la ricerca, la visione a distanza, la possibilità di svolgere un percorso a ritroso con i pregi e i limiti di questa condizione.
Si ascrive a queste linee tendenziali Il volo del calabrone (2003) di Ken Follett, romanzo immerso nello scenario della seconda guerra mondiale in Danimarca – con diverse ambientazioni anche in Inghilterra e in Svezia -, dove vengono narrate le vicende che attraverso i protagonisti porteranno a scoprire perché la Luftwaffe, la divisione aerei nazisti, riesca così facilmente a intercettare e abbattere i velivoli della Raf, l’aeronautica militare inglese. Si intrecciano le vicende di due famiglie danesi, tra loro contrapposte, e il coraggio dei protagonisti, anche molto giovani, che organizzano la Resistenza e soprattutto una certa missione, in un contesto molto particolare come quello danese, dove l”invasione dolce’ dei nazisti inizialmente portò ad accettare e assecondare questa drammatica circostanza, ma che invece successivamente provocò un movimento di opposizione destinato ad essere straordinariamente strategico nel quadro della Liberazione. Follett tesse con maestria, reinventandola, una storia non troppo conosciuta, densa di legami con gli usi, i costumi e la tecnologia del periodo. Ammirabili le descrizioni degli Hornet Moth, biposti con elica del periodo, alquanto pionieristici (esistono anche modelli recenti), che nei ringraziamenti l’autore ci dice di averne pilotato uno in competente compagnia, sebbene senza particolare bravura, dimostrando in questa come in altre innumerevoli circostanze una immersione tipicamente americana nel proprio lavoro, nei processi creativi e di comprensione ad esso inerenti.
Riguardo a Follett devo aggiungere che di mio gusto tendo a leggere gli autori che scrivono di cose del contesto epocale in cui vivono o sono vissuti, con le numerose eccezioni del caso soprattutto relative ai decenni post bellici, ma non c’è dubbio che egli offra un approccio entusiasmante per chi desideri entrare attraverso le prerogative della narrativa nel passato, soprattutto nella prima metà del novecento. Lui sa bene che la storia contribuisce bene a spiegare il presente e un po’ anche il futuro.
Prendendo lo spunto sui rapporti fra narrativa e storia, andando molto a ritroso si può affermare che il primo medioevo è un contesto particolarissimo, in quanto si configura come epoca misteriosa e poco conosciuta, inesplorata e ancora sondabile, non raccontata in quei secoli in forma romanzesca o teatrale – dato che queste forme si sostanziano nei secoli successivi -, per cui I pilastri della terra, ritenuto il capolavoro di Follett, rappresenta uno dei grandi testi di narrativa per immergersi in quella straordinaria genesi che fu il medioevo. Epoca oscura soprattutto in quanto suscita in noi il sentimento dello sconosciuto, contrapposta alla fioritura del Rinascimento, dove pur non manca tanto da comprendere, da rivivere, come del resto in ogni secolo. La letteratura di epoche remote ha adempiuto a trasmissioni di sapere spesso diversi da grandi e silenziosi avvenimenti, se non per l’idealità dei cavalieri, dell’immaginario religioso, per determinate gesta e per la traduzione delle grandi opere del passato. Si formavano le lingue e con essa la coscienza della narrazione.