“Il viaggiatore d’inferno”. In memoriam: un ricordo di Dario Bellezza
Rocco Salerno riprende in mano “Morte di Pasolini” dell’amico Dario Bellezza. Ne esce fuori un memoriale del grande poeta scomparso nel 1996.
Soccorrilo, Dio del vento, della tempesta
astrale nelle stelle in cui volò
per dimenticare i suoi assassini lunari
in una notte calpestata da tanto sonno
dei comuni mortali.
Dario Bellezza
Chi si aspetta un romanzo, nel vero senso della parola, o una biografia romanzata dal libro Morte di Pasolini di Dario Bellezza (Milano, Mondadori, 1981, pp.156) rimane deluso; è, piuttosto, la rievocazione appassionata, ma senza sbavature sentimentali e “rivisitata con memoria ferma e cuore inquieto, e assaporata fino al delirio come solo un vero poeta sa” e straziante e aberrante “com’era aberrante la visione del mondo di Pasolini quando entrava in presa diretta con una realtà che con tutte le sue forze odiava e rifiutava” del “figlio non più figlio”, come ama confessarsi il poeta di Morte segreta, nel rivivere l’eccidio del padre “nelle varie vicissitudini, dall’esilio di Casarsa fino all’approdo a Roma, la Roma santa, del Giubileo, pagana, (“Roma sarà la sua tomba, il suo altare del vizio: il suo erotismo potrà finalmente spaziare, trovare un a risoluzione totale”), restituendoci un essere visto soprattutto alla luce del “demone dell’ambiguità”, quel demone che di notte intrepido lo spingeva ad avventurarsi, alla luce dell’Eros, tanto più profanato quanto più angelicato (l’angelismo è l’ossessione di Pasolini, e Pelosi è per lui un angelo in carne).
E la trama del libro si snoda su questa articolazione del binomio anima-corpo, sogno-sonno, vita-morte-risveglio, un risveglio che deve essere cercato, a tutti i costi attraverso l’esperienza dell’ Eros, della morte (la Comare secca) da sfidare, della vita da vivere come un’avventura, non importa se come uno sconfitto, un diseredato, un deraciné, negli angoli, nelle baracche o a Piazza dei Cinquecento, dove era in agguato il suo angelo, la sua Parca, consumata all’Idroscalo.
Ciò che emerge da queste pagine, è, certo, il Pasolini letterato, poeta, cineasta che rincorre e crea Roma con i suoi capolavori, con la Trilogia della vita, con “Poesia in forma di rosa” (in fondo, “solo l’amare, solo il conoscere /conta”), ma più di tutto un “corsaro”, umano, che baldo sfida i pericoli, e vuole vivere l’avventura come una favola bella delle “Mille e una notte”.
È “questo respiro di vita, di sete”, di conoscenza, di innocenza cercata attraverso l’esperienza che domina il libro sia quando Pasolini consuma un pasto frugale al “Biondo Tevere” con lo stesso Pelosi a cui “ha chiesto di recitare la parte più importante della sua vita, quella intravista e neppure confessata a se stesso”, sia quando cerca di “rapinare” Bernardino De Santis al Circeo.
Dario Bellezza esclude, avallando anche la tesi del “male erotico”, dell’ambiguità, con le lettere che “l’amico” scrive a Silvana Mauri (futura moglie di Ottiero Ottieri), in cui il cuore del poeta viene messo a nudo, il movente del delitto politico, a cui teneva fede soprattutto dalle colonne della “Fiera Letteraria” (“peggio di come siamo stati in regime democristiano non si può stare, e se penso che in questo regime è stato assassinato un grande artista e poeta Pierpaolo Pasolini, per ordine del Palazzo, allora vorrei che la rabbia divina bruciasse Sodoma-Italia abitata dai vandali del nuovo Potere”), e parla di una morte invece “troppo pasoliniana, sua completamente fino al delirio di una sceneggiatura perfetta, perché non l’abbia voluto lui fino in fondo”.
Un Pasolini, dunque, sdoppiato (che cerca di mettere fine al suo dramma sfidandosi, scommettendo se stesso ogni momento), lacerato, schiaffeggiato dalla carne, come bisogno di rapporto di sublimazione dell’Eros, come scrive lo stesso Bellezza: “A furia di chiamarlo, Edipo si era trasformato in lui, nella sua carne, patetica figura: essere incompleto perché mortale e parlante. Essere fragile perché incapace di tenere gli occhi aperti sull’orrore del proprio destino: l’incesto e l’uccisione del padre. Quel padre, sempre lo stesso, che gli proibisce di accedere al paradiso del ventre materno. Non c’è persona da me conosciuta per la quale valga di più quello che scrisse Wittgenstein: “Niente è così difficile come non ingannare se stessi”.
E Pasolini forse in un mondo sordo all’amore, alla “Voce” era un automa in cerca dell’uomo, della donna, di “un bisogno impossibile di tenerezza, di maternità”, della gioventù che “mette il suo sogno e i suoi giorni fuori di sé”.
“Recuperare quei giorni, ormai vuoti e spariti, non era più possibile, e Pasolini camminava ormai in un deserto senza allucinazioni”.
Allora?
“Il cerchio si chiude: la tenerezza finale è la morte, la porta stretta della tortura dei corpi perché l’anima finalmente esca e s’incieli”.
Privato e pubblico, letteratura e menzogna, cinema e vita, realtà e poesia fusi in un bisogno incontenibile, inestinguibile di vivere, di agire, ciò che non è stato non è possibile in una società dell’Idra Consumistica (“in epoca poi in cui anche i parricidi non sentono l’orrore del loro delitto, ma vengono invitati in TV, in un’Italia derelitta e abbandonata alla volgarità montante del consumismo di una borghesia vorace e sotto culturale che non sa che farsene dei poeti” “Forse affamarli, forse ucciderli” lasciando uno di questi-Pasolini-tramortito come un qualunque assassino, la cui “morte -come scrive Moravia in quarta di copertina- non ha precedenti per atrocità e orrore in tutta la storia della letteratura di tutti i tempi”.
E Dario Bellezza ci ha dato un ritratto “appassionato, nella prorompente impalpabile umanità, se pur con un furente strazio, del padre, forse perché ha guardato con occhi sgombri da funambolismi e pietismi filiali anche il suo filo di vita sospeso, il suo “maledetto privato” che reclama, come Pasolini, la sua porzione di Eros, il suo “urlo” (rivivendo quello del friulano “destinato a durare oltre ogni possibile fine”), il suo essere “diverso” ma sempre figlio del nostro tempo.
“Ma il libro di Dario Bellezza” – come acutamente annota M. Guidotti nell’ articolo «Non è stata morte politica» («Il Tempo», 27 novembre 1981) non s’ impone solo per ciò che contiene, ma per un suo intrinseco valore letterario che nasce da una profonda tensione e da una passione dolorosa. Bellezza è stato colpito dalla morte di Pasolini a livello extraletterario, psicanalitico, psicologico; e ha scritto questo libro come per liberarsene. Il libro è sulla morte di Pasolini e sulla sopravvivenza del suo giovane amico Dario Bellezza; è questa sopravvivenza lacerata e palpitante che determina lo scatto poetico, il fatto estetico”.
“E allora” come rileva Domenico Porzio in «Panorama», 14 dicembre, 1981, “ciò che importa è la perentoria felicità con cui un poeta legge un poeta: lo legge con una rabbia, con una ingordigia e con una violenza che forse non chiedono di essere condivise, ma che enucleano verità le quali, altrimenti, non sarebbero state estratte dal doloroso corpo dell’opera di Pasolini. Un libro provocatorio ed elusivo, ambiguo e feroce, al quale Bellezza ha consegnato non poche pagine esemplari della sua intelligenza creativa”.