Il tempo, la morte e il vino in Quinto Orazio Flacco e Omar Khayyâm

Il tempo, la morte e il vino in Quinto Orazio Flacco e Omar Khayyâm

Saggio di Davide Zizza che mette a confronto, trovando delel affinità, il poeta latino Orazio e Omar Khayyâm.

1.

Cosa possono avere in comune due poeti, lontani nel tempo, nello spazio e nella cultura? Due poeti dei quali manca persino un eventuale termine di relazione, anche il più vago e indiretto, per es. che l’uno possa aver letto le poesie dell’altro? Non basterebbe parlare di una condivisione di temi, sarebbe una mera ripetizione.

È innegabile, per ricordare Schopenhauer, che «il poeta è lo specchio dell’umanità». Se ne è lo specchio, cattura le molteplici riflessioni derivanti da essa, per cui nel poeta troviamo non solo un rappresentante dell’umanità, non solo chi incarna su di sé sentimenti, stati d’animo, pensieri: il poeta è lo specchio dell’umanità perché interpreta sentimenti, stati d’animo, pensieri. Nihil novum sub sole. Si tratta di scoprire dal fondo le forme del pensare e del sentire. Il nostro modo di sapere, conoscere e percepire possiede la fondamentale qualità di dare forma al pensiero, avviare un processo cognitivo di formazione. Il concetto non è così attuale come lo stiamo esprimendo: la vita materiale e interiore di un individuo è popolata di impressioni, passioni, filosofie, tutte cose appartenenti alla sfera intellettuale e conoscitiva, prodotte dalla percezione la quale cattura quel qualcosa, quel telaio dove viene proiettata la dimensione introspettiva. Torniamo allora indietro! Il poeta non solo è lo specchio dell’umanità e non solo interpreta riflessioni e stati d’animo, ma ne interpreta anche le «forme» le quali a loro volta suggeriscono al lettore una familiarità o, per dirla con Hermann Hesse, «un rapporto di vivificante congenialità». La letteratura ci mette in rapporto con la vita e permette di sentirne il pulsare umano, trovare un ordine di pensiero universale.

I nomi in questione sono il poeta romano Quinto Orazio Flacco e il poeta e filosofo persiano Omar Khayyâm. Il discorso si fa impervio se consideriamo che, parlando di due poeti così agli antipodi, ci addentriamo in due concetti davvero differenti relativi alla cosiddetta «libertà del poeta», e in teoria un raffronto fra due modi poetici tanto dissimili risulta azzardato. Inoltre, il discorso sulla forma appena accennato potrebbe implicare un’insinuazione (limitativa) connessa alle convenzioni poetiche in uso nelle rispettive epoche, ma le convenzioni riguardano elementi obbligati, p.e. come i mezzi di espressione. Per elementi obbligati intendiamo espressioni o modalità in uso collegati alla cultura letteraria – ad esempio in Orazio ritroviamo la mitologia classica come vettore per spiegare gli accadimenti umani e in Khayyâm la quartina monorima riporta simboli tipici dell’ambiente arabo-persiano. Interpretare le forme del pensiero o del sentimento è un’altra cosa. Le forme del sentimento o del pensiero sono invece dimensioni di pensiero riscontrabili in poeti, scrittori, ecc. che traducono in un’immagine-simbolo l’argomento, attivando attraverso la sua idea una consonanza, una sintonia, facendo scattare nel lettore un riconoscimento di queste forme.

2.

Orazio e Khayyâm sono dissimili nello stile, nella metrica, nella visione e nel credo – il primo intriso di tradizione del mito, il secondo alterna un misticismo personale ad un venato scetticismo –, ma sono due poeti dell’attimo. «Attimo» diventa qui parola-chiave, considerato che il carpe diem

Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimu credula postero.

Parliamo, e intanto fugge l’invido
tempo. Afferra l’oggi, credi al domani quanto meno puoi.

trova un respiro, una consonanza con il desiderio di «eternità dell’attimo» del poeta persiano nella quartina (robâ’î) numero 10 che sembra ricalcarne il pensiero

E ripensare al Domani non è che tristezza.
Non perdere quest’attimo dunque se il cuore tuo non è folle: […]

o nella quartina numero 66 dove palesemente Bausani traduce con

Cogli quell’attimo che almeno passa in letizia.

Sul messaggio di cogliere il momento si potrebbero elencare altri esempi paralleli. Tuttavia la sola comparazione dei temi non basta. Si tratta di catturare, attraverso delle somiglianze-chiave, come vengono configurati i temi. In altre parole è la struttura evocativa che avvicina i due poeti, il telaio del loro percepire. Si diceva, fra Orazio e Khayyâm non vi sono fili conduttori o connessioni data le distanze storiche e culturali, ma possiedono una predisposizione, un’attitudine che si traduce in esortazione. L’esortazione ricorre tanto nei carmina quanto nelle quartine e il sentiero sul quale s’innestano i consigli dei due poeti vanno a toccare nodi di impressionante vicinanza. L’esortazione a considerare l’importanza del tempo e le fasi del tempo collegate alla vita (gioventù e vecchiaia, il tedio e la scansione rapida dei giorni), la leggiamo così in Orazio:

[…] quem Fors dierum cumque dabit, lucro
appone, nec dulcis amores
sperne puer neque tu choreas,

donec virenti canities abest
morosa. […]

Se un altro giorno ti darà la Sorte,
ascrivilo a guadagno e non spregiare,
ora che sei giovane, le danze e i dolci amori,

mentre è lontano dal tuo verde il tedio
della vecchiaia.

e in Khayyâm l’avvertiamo così, con l’occasione del vino, nella beatitudine della compagnia:

Come il tulipano d’Aprile prendi in mano la coppa rotonda,
se hai la fortuna di startene con una guancia di rosa.
Bevi vino in letizia, ché questo antico cielo crudele
D’un tratto dell’alto del tuo cuore farà bassa polvere e terra.

L’esortazione a godere la gioventù, il proprio tempo, fonda una ragione dominante (nella quartina 63 «il fresco aprile della vita s’è fatto dicembre»). Fugit irreparabile tempus, per ritrovarci con Virgilio. Il tempo, proprio perché scorre, bisogna viverlo, senza sprecarlo.

Il tempo viene evocato per il passaggio delle stagioni, per es. nel ritrovare la serenità della primavera, ma il tempo viene sensibilmente percepito e correlato al tema incalzante della morte. S’intende da sé, non esiste poesia al mondo che non parli o non abbia parlato di morte, ma i nostri due poeti sembrano concepirla nella stessa foggia. Niall Rudd, nella già citata edizione italiana delle Odi, fa notare, nell’idea espressa da Orazio, che «le stagioni ritornano, ma gli uomini non tornano più» (p. XLVII), nei cicli temporali le stagioni si rinnovano, mentre gli uomini sono legati dal comune destino di scomparire:

Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas
regum turris […]

La pallida Morte batte con piede uguale le povere capanne
e le torri dei re.

oppure in maniera più appropriata

Omnes eodem cogimur, omnium
versatur urna serius ocius
sors exitura et nos in aeternum
exsilium impositura cumbae.

Tutti siamo sospinti a un medesimo luogo,
nell’urna si volge la sorte di ognuno: prima o poi
essa uscirà, deponendoci sulla navicella
per l’eterno esilio.

Il senso di andare via, lasciare, partire, l’idea del «movimento» della morte in Orazio (si potrebbe persino dire la forma del movimento della morte) potrebbe essere accostata a quanto afferma Khayyâm nella quartina numero 13

O cuore mio, dal momento che il Tempo sì greve t’attrista
E infine d’un sùbito ha da fuggirti dal corpo l’anima pura,
Siedi sull’erba e godi […]

Il movimento della morte è l’anima che, invisibile, lascia l’anfora-sepolcro e si dirige verso l’ignoto («Nessuno sa donde sia il Venir nostro, dove l’Andare» nella quartina 34). Non importa dimostrare che la dinamica dell’anima che abbandona il corpo sia un credo originario reperibile in tutte le civiltà. Solo, la visione fornita dai due poeti sembra trovare un accordo nel trattarne l’immagine. Una comune modulazione del pensiero permette al lettore di riscoprire con maggiore familiarità l’essenza del messaggio. Così procedendo, l’argomento non torna inverosimile, e se è vero che trattare la percezione si rivela da una parte un campo troppo ardito per giustificare un simile raffronto fra due poeti – poiché non è dato sapere se non solo per il tramite della loro scrittura come questi percepissero umanamente il mondo intorno a loro – dall’altra ritorna utile per comprendere e dare conferma, aiutandoci con la fenomenologia del testo, come i sensi siano i primi vettori della conoscenza e le intuizioni prodotte dal fenomeno cognitivo durante i secoli siano diventate, sotto alcuni aspetti, un bene umano e letterario. Di fatti, per tornare en passant sul discorso del tempo, quando il topos del carpe diem è entrato nel patrimonio spirituale europeo se non a partire da Orazio?

Il tempo e la morte non possono non richiamare inevitabilmente al vino. Non è una logica approssimativa o superficiale, né tantomeno dev’esser vista come abolizione di un pensiero profondo a favore di una visione della vita eticamente debole, è una consequenzialità consciamente adottata da entrambi i poeti. Se è vero che l’edonismo presso Orazio e Khayyâm è presente, per lo stesso motivo non significa che i due fossero immorali o addirittura beoni. L’elemento del vino ritrovava già nell’antichità una sua riconosciuta funzione evocativa presso due tradizioni culturali e letterarie così diverse. Questo prova che il tema del vino portava in sé una determinatezza simbolica e popolare nella vita quotidiana sia del mondo latino sia di quello arabo-persiano. Riguardo Khayyâm potrebbe apparire più manifesto e preponderante sia per la quantità di quartine dedicate al tema sia perché la regola dell’astensione dal vino fondava la sua dipendenza ideologica (come ancora oggi) sul divieto indicato nei precetti coranici. Ma laddove vige il divieto più stretto, abbonda – anche e segretamente – l’eccezione. Tuttavia senza intenzione di applicare una dialettica del proibito, basterebbe farci condurre dalle loro parole:

Oblivioso levia Massico
ciboria exple, fune capacibus
unguenta de conchis.

Colma i politi calici di massico,
il vino dell’oblio, versa dalle ampie
conchiglie unguenti profumati.

Cur non sub alta vel platano vel hac
pinu iacentes sic temere et rosa
canos odorati capillos,
dum licet, Assyriaque nardo

potamus uncti ? Dissipat Euhiuscuras edacis. Quis puer ocius
restinguet ardentis Falerni
pocula praetereunte lympha ?

Perché con eterni pensieri travagli il tuo animo
ben più breve di essi, e sotto un alto
platano o sotto questo pino, spensierati, i bianchi
capelli fragranti di rosa e aspersi
di nardo assirio, mentre ci è possibile,

non ci adagiamo a bere? Evio sperde
il morso degli affanni. Qual ragazzo
spegnerà svelto nei calici l’ardente
falerno con acqua sorgiva?

Il pensiero oraziano espresso in questa odea (nel terzo libro, l’Ode 21 è dedicata all’anfora personificata come «dispensatrice di doni graditi» per dimenticare gli affanni, cfr. Niall Rudd, in nota, p. 796) possiamo accompagnarlo ai versi tratti dalla quartina khayyâmiana 78 (p. 30):

Riempi la coppa di vino, in mano dammela presto,
che beva di nuovo, ché quel che ha da essere, è stato

e con  la quartina 152 (p. 149)

Bevi, ché questo cielo crudele, per la rovina mia e la tua,
sta macchinando trame contro la vita mia, e la tua.
Siedi sull’erba bevendo limpidissimo vino,
ché quest’erba stessa un giorno spunterà sulla tomba mia, e sulla tua.

3.

Archetipo rappresenta il termine rivelatore della sintesi del discorso. La poesia strappa il velo, ricostruisce un’orma perduta o dimenticata, ripercorre impronte e pensieri primordiali – ‘sintomi’ di una esperienza metafisica profonda, non solo immanente e quotidiana – che si sono poi irradiati nel tempo nelle civiltà arcaiche. Per questo può aiutarci il capitolo di Elémire Zolla, La poesia archetipale, tratto dal saggio Archetipi. Il poeta scopre l’archetipo perché si interroga «come possa l’essere emergere dal nulla; soltanto la poesia può enunciarlo» e a tal proposito egli è il primo capace di saperlo indicare con le parole giuste, è il primo a interrogarsi seriamente sulla questione dell’essere nelle sue forme. Zolla prosegue: «La poesia nasce come responso oracolare; parla in essa l’archetipo evocato» e successivamente aggiunge: «La contemplazione poetica fa del semplice scenario della natura un enigma, il riflesso oscuro di un archetipo e all’interrogativo che l’enigma propone, risponde con un mito». Da questo universale non sono lontani, anzi ne sono più che mai vicinissimi, altri due poeti affini per lingua e cultura come Rilke e Hesse presso i quali il mito diveniva struttura vertebrale di un’origine e di una riscoperta. Ebbene, in virtù di un recupero di un’antica orma, «le cose menzionate in una poesia sono simboli di un archetipo relativamente infinito e ineffabile».

Certo, il retroterra significativo dell’archetipo può apparire eccessivo per giustificare un’analisi condotta su argomenti palesi come il tempo, la morte e il vino. Ma se guardiamo con attenzione, scopriamo che non è solo il collimante ravvicinamento fra due poeti come Orazio e Khayyâm a destare la nostra curiosità e non sono nemmeno gli estratti presi a esempio, nel riflettersi a specchio, a suggerirci una involontaria affinità, ma è la comune forma vitale, presente in entrambi, che sottintende alla dinamica del pensiero e del sentire umano che trova nella poesia la sua mirabile espressione.

Quinto_Orazio_Flacco