“Il Posto” di Annie Ernaux
Recensione di “Il Posto” di Annie Ernaux (L’Orma Editore, 2014).
Con la pubblicazione di Il posto di Annie Ernaux, L’Orma Editore, oltre che portare per la prima volta nelle librerie italiane uno dei capolavori della scrittrice francese, datato 1983, tiene a battesimo la nuova collana Kreuzville Aleph, sorella della già avviata Kreuzville – specializzata nella letteratura francese e tedesca del XXI° secolo – al cui nome aggiunge l’Aleph di borgesiana memoria, vale a dire il punto dove si trovano tutti i luoghi della terra da tutte le angolazioni possibili, con il proposito di raccogliere quei testi al cui interno si concentrano le pulsioni, i temi e le questioni alla base della nostra contemporaneità. E l’angolazione scelta da Ernaux per il suo romanzo – solo esteriormente autobiografico – è quella di Y (sta per Yvetot, nel dipartimento della Senna Marittima, anche se non viene mai detto esplicitamente), luogo dove i suoi genitori gestivano un bar-alimentari e attorno al quale si concentra la maggior parte della vita del padre, sulla cui figura è incentrata la narrazione.
A seguito della morte del genitore, l’autrice sente il bisogno di scrivere di lui, della sua vita, del divario creatosi tra i due nel corso degli anni, senza avvolgere i ricordi in un alone di compiaciuta retorica, preferendo invece la naturalezza di una scrittura semplice e “piatta”, la stessa utilizzata nelle lettere spedite ai genitori «per dare le notizie essenziali». Ed essenziale e semplice è stata l’intera esistenza del padre, tutta dedita alla ricerca di una sicurezza e di una stabilità lavorativa per uscire dalla difficile situazione economica e sociale nella quale è nato e garantire così alla figlia una base da cui partire alla ricerca di condizioni sempre più elevate; ma questo movimento ascensionale sulla scala sociale e culturale, per quanto ricercato e voluto dai genitori, assume le fattezze di un tradimento da parte di lei, di un rifiuto del proprio universo originario per abbracciarne un altro, fin dai tempi dell’adolescenza, fatto di libri, musica, erudizione e di frequentazioni con individui che poco o nulla hanno a che spartire con la provinciale dimensione di Y.
Il desiderio di scrivere coincide con la necessità di affrontare ancora una volta l’autorità paterna, di verificare il contraddittorio rapporto tra padre e figlia, di far riemergere dettagli considerati perduti per sempre, di analizzare quanto più efficacemente il senso della lontananza dal contesto familiare: «Mi sono piegata al volere del mondo in cui vivo, un mondo che si sforza di far dimenticare i ricordi di quello che sta più in basso come se fosse qualcosa di cattivo gusto». La rimozione più o meno volontaria del proprio passato è, tuttavia, un processo difficile e il risultato è una dolorosa lacerazione, una tensione tra la semplicità paterna e un’emancipazione borghese comune alla generazione della voce narrante. E oltre alla distanza, ad emergere tra le delicate pieghe della prosa di Ernaux è un ambiguo sentimento di conflittualità: un impegnarsi per offrire un futuro roseo alla propria discendente misto all’infida e mai confessata speranza in un fallimento che le impedirebbe qualsiasi allontanamento: «E sempre la paura o forse il desiderio che io non ce la facessi». Ma ormai il viaggio verso un mondo dal quale il genitore è sempre stato escluso è iniziato, non può essere interrotto, e non bastano certo l’affetto o la generosità a compensare un abisso che pretende l’abbandono del bagaglio familiare.
Ispirata dalla triste occasione della morte, la scrittura riporta a galla questa eredità abbandonata per meglio comprendere quelle dinamiche interne e quelle contraddizioni, tipiche di ogni esperienza affettiva, che non finiscono mai di comunicare aspetti e sfumature dimenticate – o semplicemente mai osservate – e che attraverso la letteratura diventano condivisione, patrimonio comune, spunto di osservazione, dialogo intimo e collettivo.