“Il patto del giudice” di Mimmo Gangemi: cronaca tragica di una partita tra un giovane magistrato e un vecchio boss
Recensione di “Il patto del giudice” di Mimmo Gangemi: cronaca tragica di una partita tra un giovane magistrato e un vecchio boss.
Si racconta che Gabriel García Márquez, abbia qualche volta sostenuto che “la prima regola di uno scrittore deve essere quella di raccontare ciò che conosce.” Una buona regola per scrivere con consapevolezza. Una regola che Mimmo Gangemi ha sempre rispettato nelle sue opere, dal suo primo romanzo Un anno di Aspromonte (Rubbettino, 1995), fino al suo ultimo lavoro, Il Patto del giudice (Garzanti, pp. 265, Euro 17,60) in libreria dal gennaio di quest’anno.
Dopo aver narrato la storia e l’epica del Novecento calabrese e dell’emigrazione meridionale ne La signora di Ellis Island (Einaudi, 2011), con Il patto del giudice Gangemi ritorna alla narrazione della cronaca della società calabrese e del sud d’Italia. Lo fa raccontando le indagini di Alberto Lenzi, un antieroe che non ama i luoghi comuni e non sa essere un professionista dell’antimafia. Un uomo di legge attraversato da dubbi e incertezze, ma che, a suo modo, sa essere determinato nella lotta al crimine organizzato.
Il magistrato Lenzi, “sbirro cristiano”, secondo la definizione del boss Don Mico Rota, suo antagonista nel romanzo, rimane incastrato in due indagini che si annodano tra loro nello scenario della Piana di Gioia Tauro. Tra il suo porto, luogo moderno e rischioso, dove passa di tutto e dove lo sviluppo della Calabria si mischia con i suoi traffici più sporchi, e gli aranceti intorno a Rosarno dove le braccia dei neri sono il motore di un lavoro sfruttato e duro. Dove una rivolta è servita a far conoscere al mondo quelle esistenze da girone infernale, ma non le ha redente del tutto. Nella narrazione di Gangemi, gli sporchi traffici della malavita si combinano con la vita degli africani e con l’uccisione di tre di loro proprio nei giorni della rivolta. Il giudice ingaggia una lotta che è anche culturale e dialettica con Don Mico Rota, vecchio patriarca della ‘ndrangheta, e che coinvolge anche gli altri boss e alcuni funzionari infedeli della dogana in una partita a scacchi giocata con colpi bassi e “tragedie” imbastite per portarlo fuori pista, per usarlo a fini opachi e legati agli scontri criminali delle cosche che nella Piana conducono i giochi. Lenzi e la sua indolenza, paradossalmente, non si lasciano trasportare dalla corrente e riescono a sbrogliare una matassa complessa, come soltanto chi conosce gli uomini e le atmosfere di quei luoghi può fare.
L’anziano boss Rota è la figura centrale del romanzo e si contrappone a quella del giovane magistrato. Un vecchio criminale che è capace di mostrarsi amico mentre ti sta per preparare l’estrema unzione. Un “pezzo da novanta” che, per interesse e desiderio di potere, compie infamità pur sapendo che non può permettersi che queste sue pratiche siano conosciute. Un vecchio boss che tenta di servirsi di un giovane rappresentante dello Stato che, a sua volta, non ci sta ad essere usato. Due figure di calabresi che conoscono la loro terra e il modo di vivere di quel mondo e che si fronteggiano. Due persone che sono anche due modi di vivere antitetici, due facce di una stessa realtà che non può trovare una sintesi. Gangemi, nella sua narrazione esplicita la teoria che la ‘ndrangheta può essere combattuta da chi conosce il mondo in cui è nata e si è sviluppata. Da chi non si lascia abbagliare dai suoi “tragediatori” ed evita l’errore di concentrarsi sui pesci piccoli che gli vengono offerti dai grandi boss che conducono il gioco criminale.
Nella descrizione di fatti e persone, Gangemi mette davanti al lettore anche una questione di rilevanza culturale e storica: Esiste una differenza tra vecchia onorata società e nuova ‘ndrangheta? Il romanzo talvolta sembra propendere per questa distinzione che sul piano storico certamente ha elementi di verità, ma sul piano etico non trova sostegno sufficiente, essendo la prima generatrice della seconda anche a dispetto di alcune antiche figure che nella vecchia organizzazione agivano guidati da un codice morale e avevano il consenso della popolazione più debole. Il ruolo primario della morte come punizione per chi non rispetta le regole del crimine è comune alla storia delle mafie e le rende esecrabili anche quando si vuole considerare che in momenti storici ormai lontani abbiano potuto rappresentare una forma di ribellione degli ultimi nei confronti di soprusi e poteri abietti.
Come ne Il giudice meschino, il volume che precede questo nel racconto delle vicende del magistrato Alberto Lenzi, la narrazione è fluida e tallona il lettore costringendolo a non lasciare le vicende narrate e ad inseguire, senza pause, l’urgenza di conoscere la fine della storia. La riflessione sulla qualità del romanzo di Gangemi non dovrebbe farsi influenzare dal piacere che si prova nel leggere il libro, ma certamente le sensazioni del lettore non possono essere trascurate come fossero dettagli. Come non possono essere trascurate le descrizioni, contenute in alcune pagine, di atmosfere, abitudini e paesaggi calabresi osservati con gli occhi di chi li conosce profondamente per averli vissuti. Con gli occhi di chi ha anche compreso il valore delle piccole cose: un’alba sullo Stretto, il pane abbrustolito, l’incontro con un vecchio. Cose minime che rendono il senso vero della vita, anche in una terra di drammi.
Questo è un romanzo fatto di scrittura di senso e di scrittura d’intrattenimento. Ambedue valide ma diverse, complementari e talvolta in lotta tra loro. Il senso è profondo e trova radici nella descrizione dall’interno di una realtà di uomini e fatti che è complessa e non si presta a semplificazioni che rischiano di diventare falsificazioni. L’intrattenimento è basato sulle descrizioni colorite, gli intrighi dipanati e i sentimenti e le debolezze dei personaggi. Una debolezza del libro forse viene fuori dai troppi luoghi comuni sulle donne che purtroppo sono frequenti nei punti di vista di Lenzi e di molti altri protagonisti del libro. Le troppe donne fighe e spesso disponibili fanno torto ad un mondo che è ormai cambiato, anche nei luoghi del vecchio delitto di onore. Punti di vista superati, come sono superati gli scenari dei circoli paesani, panorami umani della provincia del secolo scorso. Una borghesia rincoglionita unita a nobili decaduti, incapaci e inetti. Questa parte appare sovrabbondante nell’economia della narrazione se non per il fatto che ci mostra una serie di figure di uomini ridicoli che sono inadeguati nel loro voler essere classe dirigente e che mostrano di non saper comprendere la tragedia in cui vivono. Una tragedia di cui sono spettatori inconsapevoli e dunque, per la loro inerzia e paura, di fatto complici.
Un altro elemento essenziale che sarebbe imperdonabile ignorare è l’uso che Gangemi fa del dialetto per descrivere con maggiore dettaglio le atmosfere e il logos della ‘ndrangheta. Il libro contiene un centinaio di termini ed espressioni del dialetto della punta dello Stivale che si intensificano quando i protagonisti delle vicende sono Don Mico e gli altri boss. Significativi modi di dire aspromontani, come “armare carrette”, “fare sputazza”, “funzionava a palorgiu”, che l’autore conosce e usa con perizia. Espressioni che hanno origini secolari e che sintetizzano argomenti e punti di vista in modo magistrale. Molte di queste espressioni si legano ad un altro elemento di valore, che innesta in questo noir elementi di antropologia criminale. Il riferimento è ai colloqui che avvengono tra due capibastone e quelli tra Don Mico Rota e Alberto Lenzi, dove il non detto è più importante del detto. Dove l’importante è quello che si vuole intendere e che non viene espresso verbalmente. Un “non detto” che va interpretato, passando dal piano colloquiale al piano interpretativo che contiene il vero senso dei fatti. Un “non detto” che nella logica della malavita può salvare o uccidere. In questo senso, le “sfumature” narrate possono apparire dettagli a chi non ha respirato ‘ndrangheta nella vita ma dettagli non sono, anzi diventano elementi fondamentali per permettere al giudice Lenzi di sbrogliare la complessa matassa criminale delle sue indagini. In questo senso, i colloqui tra il giudice e il boss sono un elemento cruciale della narrazione, lo scambio di battute è magistrale. “Parabola significa” è un paradigma usato dalla saggezza popolare, dai vecchi che per tradizione orale usano storie piccole ma dense di significato per spiegare punti di vista, consigli, teorie, cultura e subcultura. Si tratta di una retorica minimalista usata nel libro dai vecchi boss e che in parte anche oggi si conserva in alcune realtà.
Il patto del giudice è un noir ambientato in terra di Calabria nel quale è la soluzione dei crimini che via via accadono a guidare il lettore, ma, come in un vero noir, chi legge è costretto a riflettere sulla realtà in cui i crimini accadono, sul mondo che il racconto descrive e fa percepire sulla base degli elementi narrati. Il magistrato è un antieroe che trasforma la sua indolenza in forza vera e le sue azioni non servono tanto ad uso esclusivo dei crimini narrati, quanto a descrivere l’universo in cui la ‘ndrangheta opera e compie i suoi sporchi traffici. A narrare i problemi storici, culturali e sociali che lì esistono. La giustizia che implementa Lenzi in qualche modo è un po’ zoppa, non riesce a condannare tutti, è imperfetta, ma si sforza comunque di essere giusta. Una giustizia, in ogni caso meno imperfetta di quella che spesso viene praticata di questi tempi nella realtà italiana. Quella che, pur rispettando formalmente la scienza del diritto, troppe volte è più caduca della giustizia che il giudice meschino riesce comunque a realizzare.