“Il giorno della iena” di Stefano Lorefice
Recensione di “Il giorno della iena” (Giraldi, 2014) di Stefano Lorefice.
Il giorno della iena è un libro difficile da catalogare. Potrebbe presentarsi come libro noir o come un romanzo corale, oppure come un excursus sulla vita frammentaria della contemporaneità.
Degni di nota sono anche i riferimenti cinematografici: più vistoso è di certo l’omaggio a pulp fiction. La Iena, come Jules, sente il bisogno di recitare un passo teologico durante le loro rapine a mano armata. A differenza del personaggio di Tarantino, però la Iena li cambia ogni volta “ho degli standard. Circa tre o quattro pezzi, scelgo sul momento quello che mi ispira di più. Se non facessi così sarei il primo ad annoiarmi”.
Ben più sottile e ricercato è forse l’omaggio a Requiem for a dream. I “tre angeli custodi” dell’uomo pillola sono tre pasticche: verde, blu e rosso. Gli stessi colori delle pasticche “per dimagrire” che assume Sara, e che si rivelano poi anfetamine − infatti i colori più diffusi per questa sostanza sono proprio il blu, il verde e il rosso − . Lorenzo Lorefice non si dilunga in dettagli in merito a queste pillole. Fa solo dire al suo personaggio che senza di esse “va giù”, forse un riferimento a qualche disturbo mentale, o alle crisi di astinenza. È noto infatti che molti psicofarmaci devono avere degli orari piuttosto rigorosi, e fino a non molto tempo fa le pasticche di anfetamine venivano prescritte dal medico e vendute in farmacia. È la ragazza dark a insinuare il sospetto nel lettore, quando chiede all’uomo pillola, senza mezzi termini se le pillole sono proprio anfetamina.
Come già detto, però, Lorefice non si spiega molto e lascia tutto questo a mere supposizioni e sospetti vaghi. Magari il povero Uomo Pillola è solo un uomo che soffre di cuore.
Il libro si presenta con un contenuto che fino alla fine sembra frammentario. I vari capitoli sono slegati l’uno all’altro così come i personaggi. Solo alla fine, nelle ultimissime pagine, il lettore capisce che i protagonisti delle vicende (i banditi filosofi, l’uomo pillola, la professoressa di filosofia) si svelano legati da un unico destino, a dimostrazione del famoso detto galileiano per cui non si può cogliere un fiore senza turbare una stella, perché tutto è collegato da un filo invisibile.
In un tempo scandito tra passato, presente e futuro, in uno spazio che varia tra Parigi e Milano, le persone si muovono come burattini guidati dalla mano sapiente di Stefano Lorefice e il lettore non può fare a meno di seguirli con ansia e aspettativa ogni volta esasperata dalle brusche interruzioni dei capitoli in cui si percepisce che la storia, sebbene interrotta, stia continuando.
Ci si sente come quando si origlia una conversazione su un autobus: si ascoltano gli interlocutori discutere di qualche argomento, ci s’interessa senza poter prendere parte al discorso finché, inesorabilmente, l’autobus apre le porte, gli interlocutori scendono e, sebbene non si sappia in quale modo evolverà la conversazione, essa prosegue ininterrotta.
Gestire un romanzo in cui si susseguono diversi protagonisti che narrano la propria vicenda non è facile.
Stefano Lorefice ci riesce facilmente grazie al suo stile duttile che si presta a essere abbassato o alzato secondo la psicologia del personaggio parlante riuscendo così a delinearlo con tagliente precisione senza il bisogno di dilungarsi in spiegazioni o descrizioni inutili e ridondanti.
Vediamo così come lo stile si fa più colloquiale quando a parlare è Lomo, uomo che sogna di portare la porchetta a Londra e fantastica, tra un panino e l’altro, sulla commessa del negozio di intimo. Si riesce a percepire la voce calda e calma del sicario mentre ordina con precisione maniacale la scena del crimine. E si fa intenso e suggestivo nel capitolo intitolato sono stato neve (tre giorni dopo) facendoci percepire − e ricordare − quel senso di disfatta che si prova quando una relazione, ormai logorata e sfinita, giunge al termine.
Ed è proprio in questi momenti, quando la scrittura si fa poetica ed evocativa che viene quasi voglia di imparare a memoria certe pagine, certi passi, per poterle portare sempre dentro come un monito ocome una consolazione, e magari anche riutilizzarle all’occorrenza.
Si dice che le parole più belle di un libro si sedimentano all’interno dell’anima, come mattoni che vanno a fortificare un muro contro le aggressioni esterne. Se questo è vero, molto probabilmente le “parole-mattoni” de il giorno della iena sono.
È inutile, perfettamente inutile chiudere gli occhi, cercare di svegliarsi e riprovare la partenza. No. Non funziona così. Come con la neve fresca: il piede ce lo appoggi e affonda. Una sola volta. Se vuoi tornare indietro e lo vuoi fare senza lasciare impronte, devi ripercorrere i tuoi passi. E non sei più libero di calpestare, di affondare, di sentire che oltre a te, c’è qualcosa che cede. E ti senti intontito, perché il bianco attorno a te è uguale, ma tu non sei più libero di scegliere la strada come quando eri partito.