“Il complesso di Telemaco”. Testo di Mauro Lamantia e Filippo Renda. Regia di Filippo Renda
Recensione di “Il complesso di Telemaco”, testo di Mauro Lamantia e Filippo Renda, regia di Filippo Renda, con Mauro Lamantia e Simone Tangolo. Milano, 20 marzo, teatro Linguaggicreativi.
Un padre ci vuole, non fosse altro che per lasciarlo. Ammirarlo e detestarlo, per salvarsi. Per essere sé stessi, senza ipoteche. È l’idea di fondo di “Il complesso di Telemaco”, il nuovo spettacolo teatrale della compagnia Idiot Savant, che ha debuttato lo scorso venerdì 20 marzo presso il teatro Linguaggicreativi di Milano.
Si tratta di una sceneggiatura originale scritta da Mauro Lamantia e Filippo Renda – lo stesso Renda ha curato anche la regia – e vede in scena Mauro Lamantia e Simone Tangolo.
Un uomo, rassegnato, che non a caso indossa abiti sformati nei toni del grigio, attende il suo turno. Custodisce tra le mani un malloppo di carte, fogli, certificati.
Un ragazzo, più sconvolto che sconvolgente, fa irruzione nella sala d’attesa. Veste una maglia da basket, la maglia di Jordan, su dei pantaloni di tuta larghi, e si trascina appresso una busta di plastica azzurra, enorme, pesante.
Il ragazzo in questione cerca il padre, o meglio, un padre, e lo cerca disperatamente, dentro una sala d’attesa. Attesa e azione, si miscelano, così sul palco.
L’uomo attende il suo turno allo sportello, ha tutti i documenti in regola per ottenere il sussidio, risarcimento per un incidente sul lavoro avvenuto dieci anni prima, e che gli ha fatto perdere l’olfatto. Il ragazzo dieci anni prima ha perso il padre, che è sparito senza fare più ritorno.
Adesso, sulla base di un ritratto – che altro non è se non un disegno d’uomo fatto da un bambino – e di una registrazione audio, esige, sotto la minaccia di una pistola, che quell’uomo, in quella sala d’attesa, lo aiuti a ritrovare il padre.
Quel padre che il ragazzo ha atteso per anni (crescendo a frittini e televisione, accudendo una madre malata che ha fermato tutti gli orologi), e la cui presenza si fa necessaria per rimettere tutto a posto. Le tubature di casa intasate come il cortocircuito nell’esistenza del figlio.
La scrittura dei personaggi è studiata nella definizione dei caratteri e nella scelta dei registri stilistici lessicali che volutamente mutano nel corso dell’opera. Se in una prima parte la lingua del ragazzo ricorda quella di Bart Simpson, estrema verso il basso, contaminata da un tipico intercalare americano come Ehi amico (entrato in italiano come calco nei doppiaggi della fiction americana), in un secondo momento il suo eloquio si fa quasi candido, infantile, a tratti ubbidiente, con una leggera patina di dialetto, siciliano.
Lo snodo lessicale, e dell’opera, avviene quando l’uomo, pressato dall’insistente richiesta d’aiuto del ragazzo, si palesa come padre. Un adulto, dunque un padre (anche se non il padre reale).
Ma il ragazzo crede a quella identità, è quello di cui ha bisogno. Non serve il padre, ma un padre che lo rassicuri e lo scuota. L’uomo, con un gesto tanto semplice quanto decisivo, sfila via il cappello e si fa, seppur temporaneamente, carico della sua responsabilità in quanto adulto.
Lo fa mosso dal desiderio di essere lasciato in pace dal ragazzo ma alla fine è possibile leggere anche una sfumatura di compartecipazione verso la sorte e la crescita del ragazzo stesso.
La regia di Renda mira all’unità spazio temporale – l’azione si svolge in maniera compatta – e a orchestrare armonicamente e secondo ritmi energici gli scambi tra Lamantia e Tangolo, che peraltro appaiono ben in sintonia e condividono il palco con mutuo sostegno.
Mauro Lamantia, nei panni del ragazzo, tratteggia il suo Telemaco degli anni duemila con gesti compulsivi e sincopati, con improvvisi blocchi di afasia, ma anche con i modi regressivi del bambino che venera il padre, per concludere con un ultimo atto di autoaffermazione.
Simone Tangolo, nel ruolo dell’adulto, interpreta un uomo, Ulisse suo malgrado, confrontandosi con vari piani espressivi. Passa dal silenzio con cui osserva smarrito e incredulo l’apparizione del ragazzo, all’accondiscendenza timorosa di una voce quasi rotta dal pianto, dall’urlo pieno che rivendica rispetto dal figlio, al tono comprensivo e ai modi complici dei “discorsi da uomini”, tra padre e figlio, appunto.
Con “Il complesso di Telemaco” gli Idiot Savant offrono una riflessione concedendo spazio anche al sorriso, oltre che al dramma. Mettono in scena una dinamica tanto antica eppure profondamente contemporanea. Il loro spettacolo, in poco più di un’ora, è una marcia verso la crescita necessaria.
Perché anche se molti adulti, oggi, tendono a dimenticarlo, Telemaco lo sa e ce lo ricorda: «Dobbiamo fare qualcosa per le nostre vite».