“I giorni e gli anni (20 Aprile 1968 – 19 Giugno 1968)” di Uwe Johnson
Recensione di “I giorni e gli anni (20 Aprile 1968 – 19 Giugno 1968)” di Uwe Johnson.
È il 1970 quando viene pubblicato il primo volume di I giorni e gli anni (Jahrestage), straordinaria prova letteraria partorita dalla mente di Uwe Johnson, uno dei massimi scrittori tedeschi del secondo dopoguerra, messosi in luce negli anni sessanta con i suoi primi e apprezzatissimi romanzi: Congetture su Jakob e Il terzo libro su Achim. È il 1970, e a quel primo tomo ne seguiranno altri tre, l’ultimo dei quali datato 1983, licenziato giusto un anno prima della morte di Johnson a conclusione di un lungo e durissimo lavoro reso ancor più complesso dalle difficoltà fisiche ed esistenziali dell’autore.
Nonostante la grandezza del personaggio, l’editoria italiana non ha mai mostrato particolare interesse nei suoi confronti: lo dimostrano il destino dei primi romanzi, completamente spariti dalla circolazione dopo essere stati portati in Italia da Feltrinelli, e la sfortunata vicenda di I giorni e gli anni, comparso nelle librerie nostrane, sempre per mano della Feltrinelli, nei primi anni del ventunesimo secolo limitatamente ai primi due volumi per poi essere abbandonato nell’archivio dei progetti incompiuti. Ma adesso le cose sembrano aver imboccato una direzione ben diversa grazie alla sensibilità della romana L’Orma Editore che nella recente collana Kreuzville Aleph, già avviata con Il posto di Annie Ernaux, ospiterà una nuova, e stavolta integrale, edizione di Jahrestage, di cui ha da poco pubblicato la terza parte. Curatori dell’iniziativa sono Delia Angiolini e Nicola Pasqualetti, già attivi nella sfortunata versione feltrinelliana di cui sopra. Finalmente anche in lingua italiana sarà possibile abbracciare in maniera totale la densa realtà newyorkese della tedesca Gesine Cresspahl e di sua figlia Marie, tra ricordi e oppressione contemporanea, nell’arco dell’anno che dal 21 agosto 1967 al 20 agosto 1968 occupa giorno per giorno con maniacale precisione il corpus dell’opera. La scelta di avviare questa nuova iniziativa col terzo volume, che va dal 20 aprile 1968 al 19 giugno 1968, si spiega con la volontà di offrire ai lettori materiale completamente inedito la cui fruizione non snatura in alcun modo l’approccio alle altre sezioni, specie quelle precedenti.
Nei rigidi confini dell’anno solare scelto da Johnson – un anno segnato dalla contestazione, dall’omicidio di Robert Kennedy, dall’invasione sovietica in Cecoslovacchia che mette fine alla Primavera di Praga proprio nel giorno scelto a conclusione della tetralogia – e ancor più all’interno dello spazio dei singoli giorni, la prosa mette in moto un tracimante meccanismo narrativo fondato su un dinamismo solo apparentemente in contraddizione con la disciplinata scansione quotidiana dei capitoli. Il resoconto di Gesine, impiegata di banca a New York, sulla propria vita si intreccia continuamente con i ricordi del suo passato legati alla nativa Jerichow (immaginaria cittadina dal nome biblico posta nella regione del Meclemburgo nella Germania Est) e in particolar modo al padre, che di Jerichow ricoprì la difficile posizione di borgomastro, costretto a collaborare con i militari sovietici alla fine della seconda guerra mondiale e a prendere decisioni fortemente impopolari per i suoi concittadini. Il rapporto con l’autorità e con le complesse dimensioni del potere, a Jerichow nell’immediato dopoguerra come a New York sul finire degli anni sessanta, è una questione niente affatto secondaria nell’economia del terzo libro: da un lato la triste vicenda del vecchio Cresspahl, abbandonato dai conterranei e dagli stessi russi di cui era succube; dall’altro la vivace curiosità della piccola Marie, affascinata dalla figura di Bob Kennedy ma soprattutto desiderosa, un po’ come la madre, di capire fino in fondo il sistema politico e la vita statunitense, non senza alcune osservazioni pungenti sulle abitudini americane.
Le corrispondenze e i richiami tra passato e presente contribuiscono ad alimentare quell’incontrollabile movimento di cui si parlava prima: un movimento spaziale e temporale, tra New York e il Meclemburgo, tra il 1967/68 e il dopoguerra, profondamente radicato nei meccanismi stessi della scrittura che portano Gesine a passare improvvisamente dalla prima alla terza persona, ad essere narratrice e protagonista delle sue riflessioni, a cogliere dettagli e particolarità in grado di collegarsi automaticamente ad elementi seppelliti nel fondo della memoria e pronti a ritornare in superficie: «Il New York Times come luogo dell’accaduto cita l’Upper West Side, dove abitiamo noi, né più né meno. Nuvole che vanno e vengono, e l’irrompere della luce del sole che riporta ancora una volta la palla di neve che una bimba ha lanciato sul tetto, e se ne ridiscende lasciando una spessa scia e nella mano esplode in farina. Nell’inverno del 1945 era tramontata una preoccupazione della figlia di Cresspahl».
Tra le pieghe dell’ordinata caoticità dei ricordi e della vita quotidiana di Gesine si inserisce la “vecchia zia”, il New York Times, la principale fonte di contatto con il mondo e le sue perversioni, anch’essa partecipe del processo messo in atto dagli attori in gioco, teso ad afferrare quanto è dentro e fuori di loro, nella memoria e nella contemporaneità. L’eclettico punto di vista di Gesine, di una tedesca immigrata negli Stati Uniti (come per un periodo fu anche lo stesso Johnson), è quello di chi pone continuamente domande nel tentativo, forse velleitario, di comprendere le contraddizioni del mondo nel quale siamo costretti a vivere e il ruolo che gli esseri umani rivestono in questo sistema di aporie e tensioni contrapposte. Nella culla del capitalismo, lontano dalla Germania dell’Est o da quella Cecoslovacchia sopraffatta dalla potenza sovietica nel ’68, come l’Ungheria di dodici anni prima, le cose non sembrano essere meno efferate rispetto al resto del mondo se si pensa alle atrocità della guerra nel Vietnam; alla violenza interna sfociata negli omicidi di Malcolm X, di Martin Luther King e dei due fratelli Kennedy; alla stessa ambiguità delle figure politiche, su tutte Robert Kennedy, sul quale Marie scrive un tema sottolineando alcuni dettagli politici scomodi e facilmente dimenticati. Il mondo intero, dunque, assume fattezze quasi infernali, ma invece di subirne silenziosamente la mostruosità, i personaggi di Johnson non rinunciano alla volontà di osservare, di ricordare, di scrivere e di partecipare all’esistenza di un realtà complessa, sul cui senso l’uomo non può smettere di interrogarsi.