“Hiroshima e il nostro senso morale”: conversazione con Paolo Agnoli
Conversazione con Paolo Agnoli, autore del saggio “Hiroshima e il nostro senso morale – Analisi di una decisione drammatica” (Guerini, 2013).
È uscito in questi giorni nelle librerie un’interessante analisi di una delle decisioni più dibattute e difficili che siano state prese nella storia dell’umanità. Si tratta di Hiroshima e il nostro senso morale (Guerini, 2013 – prefazione di Giulio Sapelli) di Paolo Agnoli, dottore in fisica e in filosofia, da sempre interessato alle teorie del comportamento umano, soprattutto per quanto riguarda il campo del “decision making” (applicazione della teoria delle decisioni alle scelte di carattere strategico, manageriale e industriale).
Al pari dell’Olocausto tutto quello che riguarda l’atomica (dalle immagini alla sola pronuncia del nome delle due città colpite, Hiroshima e Nagasaki) produce nella coscienza collettiva un senso di smarrimento, che va ben oltre il dolore, e colpisce internamente, come un qualcosa di indicibile o sacrale, un totem che produce distanze incolmabili.
La storiografia sull’argomento non sempre aiuta: troppo spesso la decisione di usare l’ordigno nucleare viene archiviata come chiosa tragica e “finale” di una stagione totalmente da dimenticare, ultimo atto del processo di autodistruzione dell’Occidente (o, peggio, viene inserita in un battage mediatico pro/contro Stati Uniti di cui non ce n’era e non ce n’è bisogno).
Ma Hiroshima non si può archiviare così, come una paginetta di un libro di storia, da sorvolare per non scoperchiarne i significati.
L’autore gioca col fuoco ma riesce nel suo intento (analizzare due decisioni, quella di costruire e quindi quella di sganciare la prima bomba atomica, cercando di comprenderne le motivazioni con punti di vista lontani dal dogmatismo) proprio perché intraprende una strada intelligente e profondamente pragmatica scrivendo un saggio al tempo stesso scientifico e divulgativo, accurato e leggibile.
Da dove nasce l’idea di questo libro? Perché non lasciare Hiroshima e Nagasaki nel “limbo storico” che da sempre le ha racchiuse?
Il carattere fondamentalmente emotivo ed istintivo, e talvolta basato su pregiudizi di carattere ideologico, delle prevalenti valutazioni di assoluta immoralità espresse sulle decisioni di produrre prima e di utilizzare poi gli ordigni atomici sono alla base della evidente e storica difficoltà di affrontare una discussione razionale. Ho voluto così avanzare commenti su come il nostro senso morale comune sembra guidarci nel valutare quegli avvenimenti, provando altresì a vagliare razionalmente i giudizi e le pretese morali che così sembrano scaturire. ‘Hiroshima e Nagasaki’ rappresentano uno degli avvenimenti più controversi di tutta la storia dell’umanità: mi è sembrato utile e appassionante provare a ‘ragionare eticamente’ su di esso.
Mi piace molto come è curato questo libro. Dilemmi etici e intuizioni morali. Nulla è lasciato al caso e bene o male si risponde ad ogni quesito posto nella premessa. In casi del genere quale componente è più importante, quella etica o quella morale?
Ambedue gli aspetti, sia la scelta di ogni singolo scienziato (e non solo, anche moltissimi tecnici, tra le centinaia di migliaia di persone che contribuirono al progetto nucleare americano, sapevano cosa stavano facendo) di lavorare alla bomba in base alle proprie credenze, informazioni, paure, valori e sia la decisione di Truman ed i suoi collaboratori politici e militari, in una parola degli USA, di farne poi uso mi hanno da molti anni interessato allo stesso modo. La scelta ‘collettiva’ si è resa possibile sulla base di tante scelte singole, soprattutto di scienziati fuggiti dall’Europa perché perseguitati per motivi razziali o politici.
Mettiamo caso che dovesse spiegare a degli studenti come si arrivò all’impiego della bomba atomica. Alla luce dei suoi studi come presenterebbe questo argomento ai suoi alunni?
Più ristudio quella pagina di storia e meno capisco. Va bene tutto ma perché si doveva arrivare a tanto? Cosa sarebbe successo se si fosse deciso di non lanciare più nulla?
La decisione di utilizzare la bomba non fu presa di fretta o sulla spinta della rabbia. Nel libro provo a mostrare come Truman si consultò in modo continuo e dettagliato con vari consiglieri inclusi taluni scientifici, e raggiunse le sue conclusioni con piena consapevolezza delle aspettative e delle alternative che aveva. Personalmente credo che una valutazione laica e razionale dei fini, mezzi e costi coinvolti dimostri che la bomba atomica fu un modo terribile di finire la guerra, ma il meno terribile tra tutti quelli possibili. Almeno così apparve in ogni caso a chi doveva decidere allora. Certamente credo che in realtà la sconfitta del Giappone non sia mai stata davvero in discussione, almeno dalla fine del ’44 in poi. Tuttavia la durata della guerra ed il suo costo in perdite di vite umane erano fonte di profonda incertezza e grande preoccupazione per gli americani. I giapponesi spesso avevano indubbiamente dimostrato di non dar alcun valore alle proprie vite, ed è decisamente probabile che la decisione di Truman abbia risparmiato la vita di milioni di soldati tra giapponesi ed americani, e di ancor più civili giapponesi, evitando l’atrocità di una battaglia all’ultimo sangue sul suolo nipponico. C’è chi afferma che si poteva e doveva aspettare la resa ufficiale senza attuare l’invasione e senza ricorrere allo sgancio della bomba. Ebbene, noto che in 2.600 anni della storia del Giappone mai nessun governo si era arreso ad una potenza straniera: la nazione nipponica non aveva mai perso una guerra. Ricordo poi che le forze armate giapponesi ancora controllavano, tramite bruta e diffusa violenza, gran parte del territorio del nord della Cina, della Manciuria e della Corea. Quanti cinesi e coreani nel frattempo sarebbero morti se gli americani avessero deciso di ‘aspettare’, in un modo o nell’altro, la eventuale improbabile decisione di resa del Giappone? Non escludo che tra coloro che, non per ignoranza, tendono a trascurare questo tipo di domande vi siano anche persone influenzate da convinzioni razziste. Un morto cinese, dopo tutto, per costoro conta meno di uno americano o giapponese.
Come descriverebbe questo processo di azioni, scoperte, scelte, attuazioni, conseguenze? Questa era l’unica soluzione possibile? Come si trova il coraggio di attuarla?
Per quanto riguarda gli scienziati ho provato a sottolineare che per Fermi ed i suoi colleghi emigrati dall’Europa il nazismo semplicemente rappresentava una minaccia ultimativa a tutto ciò che di dignitoso c’è nelle nostre vite, la personificazione del male nel mondo, e in una forma così potente ed evidente che non si sarebbe potuto fare altro che combatterlo. Si trattava di una minaccia ai valori umani talmente radicale che la sua imminenza rappresentava quella che il filosofo Michael Walzer chiama giustamente una “emergenza suprema”. Gli americani, una volta che il nazismo fu sconfitto, presero in considerazione l’idea di utilizzare l’ordigno contro il Giappone. Una volta che si ha un’arma la si detiene contro tutti, ovviamente. Truman ed i suoi consiglieri sentirono che i leader militari del Giappone si trovavano in una condizione psicologica da kamikaze e che difficilmente avrebbero accettato un’esplosione solo ‘dimostrativa’. Ma l’uso a sorpresa della bomba in una città a valenza militare avrebbe potuto portare ad una resa. E nel caso questo non fosse accaduto, il presidente Truman ed i suoi consiglieri decisero che la prima bomba atomica sarebbe stata accompagnata da una seconda esplosione in un’altra città a valenza militare ed infine dall’offerta di salvare l’imperatore del Giappone e lo stesso sistema imperiale. La resa del Giappone, a differenza di quella pretesa dalla Germania, fu una resa condizionata infatti.
Nella nota di chiusura al libro ha deciso di sottolineare che il suo studio non va affatto in una direzione avversiva al popolo e alla cultura giapponese. A mio avviso non ce n’era bisogno perché il suo procedimento è costantemente oggettivo.
Però sono costretto a farle una domanda. Un lampo percepito a una distanza di 270 km, una nube innalzata fino a 12000 metri, 60000 edifici crollati, quasi 80000 i morti diretti o indiretti con la prima, 40000 con la seconda (sui numeri ci sono anche molte discordanze nei vari documenti sull’argomento): dato tutto questo come ci si può allontanare dal forte valore simbolico di questa tragedia? Si può e si deve essere oggettivi su tutto? Come possiamo omettere il soggettivismo o l’aspetto emozionale?
La bomba atomica fu terribile, ed in modo particolare, non per quello che aveva fatto (la distruzione di Tokyo a causa delle bombe incendiarie al napalm non fu molto diversa da quella di Hiroshima; basti poi pensare alle ‘tempeste di fuoco’ sulla Germania e alle centinaia di migliaia di civili tedeschi uccisi con le innovative bombe al fosforo) ma per quello che poteva fare. Non fu a ben vedere, voglio dire, una bomba atomica (o due) che portò i giapponesi alla resa. Fu l’esperienza di quello che una bomba del genere poteva fare, più la paura di molte altre a venire. Che cosa sarebbe accaduto se le centinaia e centinaia di bombardieri che sino ad allora avevano devastato il Giappone fossero stati armati con i nuovi ordigni? Ma i giapponesi comunque, per quanto riguarda il modo con cui si è ottenuta la loro resa e la pace, non sono stati certo più ‘sfortunati’ dei tedeschi, o di quanto sarebbero stati loro stessi a fronte di una invasione della loro isola da parte degli alleati. Credo sia plausibile affermare allora che intuire emotivamente che un’azione sia giusta o sbagliata, in certe proporzioni, non significhi necessariamente formare poi la convinzione che essa sia realmente giusta o sbagliata, in quelle stesse proporzioni.
Ci può essere quindi un uso etico delle armi? Dove può iniziare e finire la “giusta causa”? E da queste domande che si è deciso finora – fortunatamente – di non farne più uso?
Purtroppo quando si arriva alla guerra molte considerazioni etiche e morali saltano. Credo innanzi tutto che il fatto orribile sia la guerra in sé: dovremmo preoccuparci del perché le guerre nascono ancor più del modo in cui si combattono. Ogni singola vita umana persa in questo tipo di circostanze dovrebbe farci riflettere su quanto sia importante ricercare sempre la pace ed evitare le condizioni che spingono gli uomini a combattersi con la violenza. Come affermò Truman stesso ‘non dobbiamo preoccuparci delle armi fino al punto di perdere di vista che la guerra è la vera scelleratezza’. Ho maturato la convinzione che la guerra, molto spesso, non è colpa di chi poi è costretto a combatterla ed a cercare di vincerla, sparando semplici pallottole o costruendo armi sofisticate. Più probabilmente è responsabilità di chi l’ha resa possibile e qualche volta (purtroppo davvero) inevitabile. Innanzi tutto di quei politici, ma anche quelle persone comuni in generale, che alimentano la contrapposizione ideologica, il disprezzo delle posizioni diverse e soprattutto – ciò è il fatto più grave – di chi le detiene, la demonizzazione degli avversari quindi, e l’odio verso ogni compromesso. Nello specifico, la colpa della più orribile carneficina che la specie umana abbia mai sperimentato, i 60.000.000 di morti della seconda guerra mondiale, dovrebbe prima di tutto essere addebitata a Hitler, Hirohito e tutti coloro che hanno condiviso i loro progetti di dominio sul mondo, le loro politiche di aggressione e conquista militare, le loro nefaste ideologie (tra costoro Mussolini ma anche l’ultimo dei fascisti italiani). Non a Bohr, Fermi, Truman. Semmai, qualche colpa andrebbe addebitata alla scellerata politica pacifista di Chamberlain e al disgraziato tentativo di alleanza di Stalin con Hitler. Chi davvero ama la pace non dovrebbe in ogni caso urlare slogan violenti o bruciare simboli e bandiere di altri popoli o nazioni in piazza, come spesso succedeva ai comizi di Hitler e come purtroppo si verifica talvolta anche ai nostri giorni, perfino vicino a noi. La pace si costruisce da lontano, anche nei semplici comportamenti quotidiani. Coltivando la tolleranza e non insultando chi non condivide le nostre idee. E’ in un contesto di violenza, di intolleranza e di ignoranza diffuse che le decisioni criminali di alcuni (motivate da ragioni economiche o ideologiche) si possono innescare con fortuna.
Fisica, scienza, filosofia, teorie comportamentali: ma chi è Paolo Agnoli? Quanto c’entra questo libro con il suo lavoro? Qual è stata l’impressione dell’editore quando gli ha presentato questo lavoro?
Sono un fisico sperimentale di formazione e mi sono da anni sempre più interessato anche agli aspetti filosofici della scienza, passione che mi ha portato a conseguire una decina di anni fa una seconda laurea in filosofia, sempre con il vecchio ordinamento. Il mio curriculum professionale (ho una certa esperienza manageriale in aziende di livello nazionale, nelle quali ha curato anche questioni di ricerca e sviluppo) e i miei interessi sulla teoria del comportamento umano, coniugati alla propensione ad un’analisi quantitativa delle incertezze e dei problemi relativi alla presa di decisioni strategiche, mi hanno indotto nel 2009 a fondare (con il mio socio Francesco Piccolo) una azienda di formazione e consulenza nel campo del ‘decision making’, Pangea Formazione. Sottolineo che in ogni caso il mio libro non si rivolge in primis alla cerchia degli esperti riconosciuti, ma a tutte quelle persone curiose – ce ne sono! – interessate a costruire un giudizio più attento e meditato su quello che è stato giudicato l’evento storico più significativo del XX secolo.
È stato difficile trovare materiale? Sappiamo già quando saranno le prime presentazioni?
Oggi tramite la rete è possibile accedere a siti governativi americani (soprattutto ma non solo) ricchi di materiale storico e documenti in parte desecretati solo negli ultimissimi decenni. In più tramite Amazon ho facilmente acquisito molte delle pubblicazioni più citate e considerate autorevoli dagli specialisti, usualmente in lingua inglese. Vi saranno alcune presentazioni del libro sia a Roma che a Milano, ma le date non sono ancora state fissate. Il volume è in commercio solo da pochi giorni.
Grazie mille. A presto