“Giorgio Caproni – Giuseppe De Robertis: Lettere 1952-1953”, a cura di Anna Marra
Recensione di “Giorgio Caproni – Giuseppe De Robertis: Lettere 1952-1953”, a cura di Anna Marra (Bulzoni).
Il carteggio fra Giorgio Caproni e Giuseppe De Robertis, un poeta e un critico centrali nella vicenda novecentesca, consta di circa sessanta fra lettere, cartoline e messaggi di ogni tipo, attraverso cui viene a crearsi presto una confidenza quasi fraterna (i due si incontreranno di persona non più di una decina di volte) che coinvolge e affascina il lettore.
Strumento specialistico curato con acribia filologica da Anna Marra e piacevole lettura per l’appassionato, il libretto descrive in poco più di centoventi pagine una vicinanza d’elezione, umana, non priva di brevi malumori o giudizi acerbi sulla contemporaneità. Dalle lettere alla vita dunque, percorrendo le strade della stima, quella del vecchio De Robertis per il giovane della “seconda generazione”, e la soggezione del poeta nei confronti del grande critico.
In appendice al carteggio vero e proprio, presentato da un breve scritto di Attilio Mauro Caproni, figlio del poeta, la curatrice allega le testimonianze pubbliche che convalidano le parole scambiate in privato. Si tratta di pezzi d’annata, tutti più o meno confluiti in volume, e di una postfazione dal titolo Tra critica e poesia. Appunti sul compromettersi.
Ed è la compromissione con la poesia, una cosa molto lontana dall’idillio romantico che viene assunto a luogo comune, il centro della vita e del dolore di questi due uomini che si parlano a viso aperto di gioie, affanni e preoccupazioni. Questo spirito di comunanza fa scrivere a De Robertis come saluto in una delle prime lettere (2 ottobre 1952): “Ti auguro ora solo migliore vita, perché so quanto peni; ma se non ci fosse altro, che possa ancora arricchire il tuo lavoro. E si dirà un giorno che c’è stato un semplice maestro elementare, che fece il maestro tutta la vita, ma che ebbe in dono scriver versi, tra i pochi e i primi della sua età. So che hai moglie e figli. Salutameli caramente”. Per non parlare delle testimonianze di quegli anni che Caproni inserisce tra una cosa e l’altra e che ci consegnano a distanza di così tanti anni (e in fronte a una così imprudente mitizzazione) la misura e perfino la miseria di un ambiente tanto favoleggiato. Ecco cosa scrive a proposito dell’ambiente romano il 3 settembre 1956: “Eccomi qui in questa grossa capitale dei broccoli, che non mi dice nulla e in cui vivo come in un deserto, non riuscendo a frequentare né i romanzanti, né i cinematografanti che cercano più la gloria (la pubblicità) del rotocalco (e i quattrini del gran premio) che la disperazione, squattrinata, della poesia (fuori moda, ormai)” o ancora in una lettera del 27 novembre dell’anno successivo, ecco come si esprime, in un impeto di impazienza, sulle poesie di Giacomo Noventa e sul dialetto (ma bisogna specificare che in altri luoghi la poesia in dialetto è lodata e sostenuta con convinzione): “E poi questa storia del dialetto, francamente, sta rompendoci ormai le scatole. Che significano, oggi, i dialetti? Perché questa mascherata, questo mettersi in una pelle che non è più nostra? Questa sì che è Arcadia non di quella buona: il nuovo modo di fare gli incipriati pastorelli”.
Ma basta con le anticipazioni. Le Lettere 1952-1963 curate da Anna Marra per la collana «Novecento live» di Bulzoni, non sono avare di momenti appetibili, specialmente i palati fini. Al lettore, adesso, individuare i più gustosi.