Flannery O’Connor, maestra di scrittura
Per quanto si parli di Flannery O’Connor, non si parla mai abbastanza di Flannery O’Connor. Recentemente la John Cabot University of Rome ha ospitato un convegno dedicato alla scrittrice statunitense. Al seminario, organizzato da Elizabeth Geoghegan, Andrew Rutt e Elena Buia Rutt, era collegato un concorso di scrittura creativa riservato agli studenti dell’università americana: ai ragazzi è stato chiesto di scrivere un racconto breve prendendo le mosse dalla short story “A good man is hard to find”.
Flannery O’Connor è una maestra di scrittura eccezionale. Per quanto si parli di lei, lo ripeto, non se ne parla mai abbastanza. Si ha sempre l’impressione che la scrittrice di Savannah non abbia il riconoscimento che merita. Un motivo c’è: non è una scrittrice facile, e certo non ha mai voluto esserlo. Per di più oggi verrebbe definita un’integralista cattolica, e la nostra epoca diffida degli integralismi (a ragione) e delle convinzioni troppo radicate (a torto). Flannery O’Connor ha avuto una vita difficile, tormentata da una terribile malattia che le strappò il padre ancora giovane e che finì per ucciderla a soli trentanove anni. Lo stoicismo con cui sopportò le proprie sofferenze perseguendo la propria vocazione di scrittrice e di apologeta del cattolicesimo dovrebbe servire da esempio ai tanti aspiranti autori dei nostri giorni, se non altro come prova del fatto che scrivere bene è una questione di sacrificio, anche quando si possiede un enorme talento naturale.
L’influenza di Flannery O’Connor sull’arte americana è carsica: scorre nascosta e invisibile, ma riemerge potente dove meno te la aspetti: nei versi di Elizabeth Bishop, certo, e più tardi nei racconti di Carver, ma anche nei film di Quentin Tarantino e nell’America ruvida e desolata descritta da tanti cantautori di successo.
Nella sua dedizione all’arte del narrare la O’Connor aveva compreso alla perfezione quello che qualunque scrittore dovrebbe considerare un imperativo categorico: le emozioni devono essere suscitate, non descritte. Con un realismo puntuale che probabilmente deriva da Faulkner, Flannery O’Connor ci guida nell’America del sud. E’ la Bible belt degli Stati Uniti, la “fascia della Bibbia” costituita da quegli stati meridionali dove l’influenza della religione è più potente e incisiva. Esiste ancora oggi, ma negli anni in cui scriveva la O’Connor (siamo alla metà del secolo scorso) la differenza con gli stati e la cultura del nord (e soprattutto dell’est) era ancora più marcata. C’erano, come si legge nella “Storia della letteratura americana“ scritta a più mani per la Bur, “segreti, decadenza, case fatiscenti, grotteschi freaks, qualche residua Mammy nera, paesaggi stralunati, comunità spesso accecate dal bigottismo e dall’intolleranza”. Questo scenario, oggi utilizzato al massimo come una quinta colorata e caratteristica per storie di altro genere, era il centro della narrazione nei romanzi di Faulkner e un’occasione di denuncia sociale in quelli di Caldwell. Anche nei racconti di Flannery O’Connor, almeno all’apparenza, non c’è nulla più di questa umanità nuda ed elementare. I personaggi si muovono spinti da necessità puramente meccaniche, sono abbrutiti e grotteschi, e vengono descritti con il tono piatto del documentarista, senza preamboli e giri di parole, tanto che spesso il lettore viene calato in una realtà desolante con una rapidità traumatica.
Prendiamo l’incipit del romanzo del 1960 “The violent bear it away” (“Il cielo è dei violenti”, in italiano): “Lo zio di Francis Marion Tarwater era morto solo da mezza giornata quando il ragazzo si ubriacò troppo per finire la fossa, e un negro di nome Buford Munson, che era venuto a riempire una brocca, dovette terminare di scavarla e trascinarci il corpo, che era ancora seduto alla tavola della prima colazione, per dargli una sepoltura da cristiani, con le insegne del Salvatore sopra la testa e abbastanza terra perché i cani non lo scavassero fuori”. La realtà nuda e cruda, nient’altro. Almeno apparentemente, perché proseguendo nella lettura si finisce per provare un senso di inquietudine, come se l’inquadratura con cui la O’Connor guarda alle cose fosse volutamente fuori asse. La realtà è raggelante, ma è pervasa da un senso di mistero. “Credo che uno scrittore serio descriva l’azione solo per svelare un mistero”, disse una volta la scrittrice, “naturalmente può darsi che lo riveli a se stesso, oltre che al suo pubblico. E può anche darsi che non riesca a rivelarlo nemmeno a se stesso, ma credo che non possa fare a meno di sentirne la presenza”.
Nascondere qualcosa perché venga trovata, o almeno percepita. La scrittura è anche questo.
Materia e mistero, due elementi niente affatto in contraddizione. “La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. […] Lo scrittore di narrativa deve rendersi conto che non è possibile suscitare la compassione con la compassione, l’emozione con l’emozione, o i pensieri con i pensieri. A tutte queste cose bisogna dare corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore”. Ma è anche vero che questo mondo non può bastare: “per gran parte della critica popolare, vale l’opinione che la narrativa debba avere al centro l’Uomo Medio, e dipingere la comune vita media di tutti i giorni; mentre ogni scrittore di narrativa sarebbe tenuto a riprodurre quello che veniva chiamato ‘uno spaccato di vita’. Ma se fossimo soddisfatti della vita in quel senso, non avrebbe alcun senso produrre letteratura”.
Chiunque, aspirante scrittore o meno, volesse addentrarsi nel mondo di Flannery O’Connor, non potrà esimersi dal consultare il sito www.flanneryoconnor.it, una vera e propria guida alla vita e alle opere della scrittrice statunitense. Il sito è realizzato da Antonio Spadaro, curatore del volume “Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere”. Spadaro sintetizza bene l’ammonimento che la O’Connor, implicitamente o esplicitamente, rivolge ai suoi emuli: “scrivere narrativa non è questione di dire cose, ma di farle vedere al lettore”. Eppure compito dello scrittore è mantenere il distacco necessario a contemplare la vita senza dissolversi in essa, perché “il realismo che la O’Connor intende prendere in considerazione è orientato in direzione del mistero” e richiede quindi una disposizione d’animo adatta a recepire il mistero, a intuirlo.
Bisognerebbe descrivere ciò che si conosce già, lasciando che ciò che conosciamo già ci stupisca ancora una volta. “Se uno scrittore vale qualcosa”, scrive le O’Connor, “ciò che crea avrà la propria fonte in un reame assai più vasto di quello che la sua mente cosciente può abbracciare, e sarà sempre una sorpresa maggiore per lui di quanto non potrà mai esserlo per il suo lettore”.
Se riuscite a ottenere questo risultato allora avete superato l’esame.
[…] Per quanto si parli di Flannery O’Connor, non si parla mai abbastanza di Flannery O’Connor. Ho provato a farlo qui. […]