“Erbamara” di Gëzim Hajdari
Recensione di “Erbamara” di Gëzim Hajdari, nuova edizione dopo quella del 2001.
La vicenda editoriale di Erbamara di Gëzim Hajdari ci parla di un libro che attraversa tempi differenti pur restando, alla lettura, un testo ostinatamente refrattario ad essere inscritto o incorniciato in questo o quel momento storico. Una prima stesura in albanese, per mano del poeta diciannovenne, risale al 1976 (con il titolo Il diario del bosco) ma la sua estraneità ai canoni del realismo e dell’ottimismo socialista fa sì che la censura del regime di Enver Hoxha ne impedisca la pubblicazione.
Traccia più antica del lungo e ciclico percorso della scrittura di Hajdari, Erbamara viene stampato per la prima volta nel 2001 (da Fara Editore, con versione italiana dell’autore stesso), venendo offerto come libro emerso dal passato, nato in un altro luogo e da un altro tempo storico e biografico: l’infanzia e la giovinezza negli anni bui della dittatura comunista in Albania.
Un libro fuori posto, dunque, e che tuttavia si incastona nell’opera poetica di Hajdari come un capitolo inaugurale che disloca l’origine nel momento stesso in cui la porta ad affiorare sulla pagina; ne sia prova la collocazione di Erbamara all’inizio di quella sorta di lunga narrazione per cicli e frammenti che è il volume di Hajdari Poesia scelte 1990-2007. Erbamara vi è inserito non secondo la data di pubblicazione (che viene dopo altre e importanti raccolte bilingui che hanno fatto di Hajdari una voce prominente sulla scena della letteratura della migrazione in Italia) ma in ragione del tempo della sua prima composizione, che tuttavia viene a precedere il punto di partenza dell’arco temporale dell’antologia hajdariana.
In breve, è proprio dal suo essere un’origine sempre differita e spostata che Erbamara, diviene il libro di un inizio che non si esaurisce nelle sue coordinate “reali” di tempo e di spazio ma che, al contrario, non cessa di ricominciare e di ossessionare spettralmente passato, presente e futuro. Lo dimostra la coincidenza editoriale che vede uscire contemporaneamente questa nuova edizione di Erbamara (presso Cosmo iannone Editore, nella collana Kumacreola) e la più recente delle opere di memoria storica realizzate da Hajdari negli ultimo anni, la raccolta degli slogan del regime di Enver Hoxha sotto il titolo Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista (edito da Besa). Possiamo davvero leggere Erbamara e gli slogan come un dittico oppositivo: poesia contro anti-poesia, l’io lirico che si disindividua in un tragico mondo campestre contro la coagulazione del Super-Io della collettività sotto dittatura, la parola viva e vissuta contro la parola seriale, imposta, iterata e amplificata. Basti questo per accennare a quanto Erbamara sia un libro sull’origine (del mito, della biografia, della poesia, della propria esperienza storica) e sul non-finito che forza l’origine stessa a ripetersi e variarsi nel tempo.
La sequenza dei testi di Erbamara contiene già la partitura di questo movimento, modulato attraverso una ricorsività di immagini che stilizza il paesaggio natale dell’autore e ne fa il teatro severo, ruvido, violento e incantato di gesti ed emblemi convocati a dire di un’origine da sempre perduta. Ogni lirica registra questa condizione e la ripropone con posture differenti, dall’interrogazione al dubbio, dall’anticipazione della tragedia alla rimemorazione della ferita, dalla descrizione di una campagna sinistra e stilizzata all’allocuzione a un ascoltatore o destinatario incerto. Talvolta le immagini si distribuiscono su una profondità temporale (Ahimè, / la mia infanzia / divorata dai falchi di Darsìa, p. 35), talaltra stringono i tempi insieme e li incorporano nell’io centrale (Ora cresci dentro di me, / nelle vene e nella carne. / Le tue ombre e gli spari / abitano il mio essere, p. 25).
Non c’è pace possibile in questo mondo campestre, tutto percorso dalla tensione tra la transitorietà dei soggetti e lo splendido ma crudele ripetersi dei ritmi della natura e del mondo. Un testo esemplare, tra i molti citabili:
Forse domani non ci sarò
nei campi incanutiti.
Come una nuvola mattutina
scomparirà il mio volto.
Si perderà la mia voce
e il richiamo quotidiano.
Orfani nelle selve
speranze e sogni.
Appesi al fiume
resteranno nomi e ombre.
In polvere e cenere
la mia ossessione.
Sul corpo crescerà
un nuovo biancospino.
Sotto l’erba tenera
il mio segreto.
Verranno i giorni di maggio
con ginestre e sole.
Come prima, canteranno
l’usignolo e il cuculo.
Sono pochi i riferimenti diretti di Erbamara al tempo storico in cui si colloca la prima scrittura. Proprio questa intenzionale povertà, tuttavia, fa sì che il paesaggio e la sua vita si carichino della storia e la incorporino in sé come una rovina, come qualcosa di destinato a crollare, non certo in vista di una palingenesi ma in ragione di una chiamata (“richiamo” è una delle parole più ambigue e più ricorrenti di Erbamara) che ricorda a tutti noi la nostra partecipazione nel procedere funesto e violento dei tempi, di un “secolo” per nulla magnifico e progressivo:
Luna,
è fuggita anche questa stagione
senza un bacio
nella notte bianca.
Cielo,
è passato anche quest’anno,
senza una ragione,
con la sete dei pozzi prosciugati
nelle nostre labbra nere.
Valle,
sta andando anche questo secolo
come un toro abbattuto,
con il tempo che ci scivola tra le dita
e il canto del cuculo da collina a collina. (p. 49)
Nessun minimalismo è possibile: la stilizzazione del paesaggio operata da Hajdari in Erbamara non lascia rifugi privati. Tempo della storia, dell’io e della natura, pur diversi e divergenti, non si possono separare: Spogliato delle foglie / dintorno niente grida. / Nei sentieri suonano / echi di spari. // Anche il mio nome, / scolpito sul tronco / come antica maledizione, / a metà è rimasto (p. 23). Questo nome mozzo è la traccia dell’origine inconclusa. La poesia, come il percorso dell’opera di Hajdari testimonia, si muove a spirale intorno a questo non-finito, portandolo ogni volta più in là, per piccoli o grandi scarti.