Elio Pecora: «Ho vissuto la mia vita con coerenza»

Elio Pecora: «Ho vissuto la mia vita con coerenza»

Conversazione con uno dei maggiori poeti contemporanei: Elio Pecora.

Unknown-2

“La poesia ci mette davanti ai nostri bisogni interiori, alle nostre inquietudini e alle nostre domande estreme”. È Elio Pecora a ribadirlo, autore di numerosi libri di poesie, romanzi, commedie teatrali, saggi critici e curatore dell’opera postuma dell’amico Sandro Penna, il poeta di “una strana gioia di vivere”. Nella sua Sant’Arsenio di Salerno dov’è nato nel 1936 il poeta vi torna ogni estate, vive da moltissimi anni a Roma. “Sono molto infelice per la Roma che vedo, io amo molto questa città, ci sto da cinquant’anni, ma la vedo trattata malissimo.” Nei suoi libri più recenti perdura la sua ricerca e persiste la convinzione: chiuso nella sua stanza, il poeta comunque si misura col mondo, col tempo. Non può evitare di ascoltare e intervenire. È continuo, insistente, il tema, si direbbe il sentimento del tempo anche nelle componenti psicologiche in cui si avvertono i sedimenti di altre lezioni.

La poesia di Elio Pecora, afferma la critica ufficiale, affonda le sue radici in una cifra espressiva costante, tra costrizione e libertà, tra l’andare e la stasi. 

La stasi è un tema molto ricorrente del restare della poesia dei latini, del rinascimento italiano, che sia riuscita a imporsi nel mondo. Direi piuttosto che la stasi è lo stare nei limiti del mondo o del fare i patti continui con la vita. Non stasi nel senso di immobilità, anche perché tutto questo andare, tornare e accettare la vita, viene da molto lontano, soprattutto dalle mie prime letture di Eraclito, per esempio, di un mondo in movimento. Un mondo di opposti, che si muove, sta fermo, si rimuove in un continuo movimento.

Fernando Pessoa diceva che “si scrive perché la vita non basta”. È così? 

Certo che si. Perché si scrive? Perché non basta la vita, anche se la vita a volte è molto di più. Ma non basta la propria vita, perché noi siamo fatti di tanto altro di tutti gli altri. Siamo parte del mondo al quale torniamo con la morte poi, se vogliamo. Noi cerchiamo continuamente di raccogliere e di registrare la poesia e la scrittura. Noi crediamo di noi stessi soltanto e se scriviamo anche solo di noi stessi stiamo scrivendo dell’altro che ci portiamo dietro. Non possiamo assolutamente prescindere dai nostri rapporti col mondo.

Quali sono le inquietudini nella poesia di oggi?

Sono quelle di sempre: conoscenza e mistero, esprimere quel che preme dentro e diventa per dono e per fatica sostanza della parola, della poesia.

La morte è una delle paure dell’uomo del nostro tempo? 

Io penso che la morte abbia sempre fatto paura perché fa parte della vita. Perché la morte è uscire dal proprio io, quindi la perdita della propria persona e questo fa paura, preoccupa, soltanto che è una paura che bisogna misurarla con l’ironia e anche prendere posizioni, senza che la morte porti all’unica legge veramente naturale che è l’unica cosa certa della vita: se nasciamo dobbiamo morire. E questo lo sappiamo. La cosa può preoccuparci e anche ferirci, questo terrore va contenuto come qualcosa che naturalmente deve avvenire.

L’amore e la morte, Eros e Thanatòs, hanno la stessa passione in poesia? 

L’amore va al di là di quello che può essere l’amore tra due persone. L’eros è l’energia come vuole la psicanalisi, l’energia d’innamoramento delle cose. Io sono uno che continua ad innamorarsi delle cose che ho intorno. Un paesaggio, un evento, una persona, perché l’innamoramento è attrazione, è l’intrattenimento dell’altra parte. Tutto questo è molto presente nella mia vita. Vedo l’amore come qualcosa che appartiene alla vita e non alla morte. L’amore è energia, movimento, è sofferenza se non si è amati. Però è vita, è il vissuto di questa visione decadentistica dell’amore, da non confondere con la morte. Negli antichi latini e greci tutto questo non c’era. La figlia di Venere e di Marte, era la figlia della dolcezza e della guerra e la guerra porta la morte. Ma non è quella la vera guerra che amiamo. Noi amiamo la guerra dell’interiorità, del sentimento.

La scrittura può essere allora una terapia per guarire dal dolore e dalla sofferenza? 

Per gli scrittori si. Lo aveva già scritto Proust. Per uno scrittore è la guarigione. Non è consigliata la terapia analitica alta ai creatori o agli scrittori perché la loro cura vera è esprimersi. Innanzitutto, c’è qualcosa di più profondo. Ecco perché vado nelle scuole, perché se i ragazzi che scrivono migliorano nella scrittura, nel senso di dire qualcosa che sentono di più, non rimangono in superficie, fanno venire fuori i loro veri problemi, le loro domande ultime, in qualche modo nel momento in cui si mette con parole esatte quello che si ha dentro si cresce. È quella la vera risposta, non ci sono risposte di salvezza o di felicità. Ci sono risposte però che vengono dal fatto che noi miglioriamo noi stessi esprimendo quello che ci portiamo dentro di oscuro e che facciamo invece diventare chiaro. Quello che fanno poi le terapie psicanalitiche, far si che il paziente riesca a dire chiaramente con un lungo processo predefinito quello che invece lo turba dentro e a cui non sa dare parole. In questo la scrittura come lavoro, aderenza a quello che ci portiamo dentro, conoscenza della lingua in modo da sentire questa lingua come qualcosa di vivo nel quale mettiamo le cose vive che ci appartengono.

Unknown-1

La poesia è nostalgia? 

Io non credo molto nella nostalgia. Mi sono dato di recente anche delle risposte sulla nostalgia come dolore del ritorno. È dimostrato in maniera diversa, la nostalgia di Ulisse che vuole tornare nell’isola, ebbene, perché nell’isola non c’era stato abbastanza, perché non aveva avuto abbastanza Penelope. La nostalgia verso qualcosa che non abbiamo consumato, che non abbiamo goduto, perché se lo abbiamo goduto fino in fondo non abbiamo nostalgia, appartiene al passato. Vogliamo tornare in un luogo per quel che in questo luogo non abbiamo visto. È saputo questa è la nostalgia. La poesia può essere piuttosto spesso malinconia più che nostalgia, nel senso che torniamo a scrivere poesie sullo stesso tema tante volte perché si pensa di non aver mai detto fino in fondo quello si voleva dire. Troviamo infatti nelle opere dello stesso autore, lo stesso tema che torna e ritorna e se ogni volta si parla è perché si vuol dire di più. Si vuol dire meglio. Il caso della malinconia invece mi pare per me è molto più presente sin dall’infanzia. Ma malinconia è altro, è molto diversa dalla nostalgia. È sentimento del tempo, sentimento della precarietà e della labilità. E allora l’uomo s’arresta. Non gli appartiene. Nel senso sente che la sua vita è breve, sente che è dell’universo è una piccola parte. Questa può essere la malinconia che però può essere qualcosa di straordinariamente grande. Porta pena per queste misure che l’uomo si dà e nello stesso tempo però avverte di una appartenenza a qualcosa di molto più grande. Che è appunto l’energia dalla quale veniamo e alla quale dobbiamo ritornare.

Amico e profondo conoscitore di Sandro Penna del quale hai scritto “Una cheta follia”, una delle più belle e interessanti biografie di questo poeta importante ma emarginato.

Se parliamo di emarginazione sociale da sempre tutti i poeti vivono emarginati da una società superficiale, che guarda alla poesia come bene inutile. Penna non è mai stato emarginato, già dalle prime poesie è stato riconosciuto poeta da Saba e da Montale, da Pasolini che lo poneva più in alto di qualsiasi altro poeta vivente. Certo di poesia non si vive e Penna si dedicò così a vari commerci, ultimo dei quali nelle opere d’arte. E poi il suo conoscersi poeta è avvenuto quando ha sentito la sua diversità, il suo bisogno profondo di consegnare all’opera e al mondo quanto è giunto a percepire.

Oltre che come poeta sei molto apprezzato come autore teatrale. Ma Come sei giunto al teatro? 

Il teatro per me è cominciato proprio da bambino, quando era un gioco, con i miei coetanei e i miei cugini mettevo su commediole. Era un consegnarsi agli altri direttamente. Il teatro è molto vicino alla poesia, nel senso che la poesia ha una sua forza orale, deve toccare gli altri e deve raggiungere l’orecchio dell’altro come una musica che viene eseguita e non può essere solo scritta. Il teatro è mettere insieme dei dialoghi, è mettere insieme più verità, più persone. A me è capitato di raggiungerlo soltanto negli anni ’80. Prima devo dire è cominciato con le miei letture orali, letture pubbliche fatte in amicizia gratuitamente. Così chiamavo tutti i poeti più noti e anche giovani e meno giovani. Da Caproni a Bellezza, dalla Rosselli a Sinisgalli, da Magrelli alla Insana, dalla Frabotta a Zeichen ad Arbasino, ci sono passati tutti in questi teatrini dove io dal 1979 in poi organizzavo queste letture. Negli ultimi anni ho scritto meno di teatro perché mi affliggeva molto lo sforzo di registi e teatranti per mettere insieme una compagnia, soffro di empatia e quindi mi trasferisco dall’alta parte. Il teatro per me va immediatamente percepito, che sia una commedia di Euripide o di Shakespeare o di Anouilh, lo spettatore deve comprendere tutto, deve rimanergli. E se poi lo porta anche a leggere e a ripensarci è un’altra faccenda. È quello che deve fare anche per me la poesia. Al primo ascolto raggiungere lo spettatore. Questo è molto importante. Io amo molto il teatro e credo molto, ma non lo vedo diverso dalle altre mie espressioni, se non per gli strumenti usati.

Ti senti poeta dell’ironia, poeta della vita che gioca con la verità? 

Il riso libera dai pesi del mondo, anzi li supera, e non perché li ignora o li cancella, ma perché li osserva da un altrove in cui, cessato il riso, l’uomo si pensa un poco sorridendo. In “Tutto da ridere?” ho raccolto infatti poesie giocose che conducono al riso e al sorriso. Avevo scritto molti di questi versi e versicoli in anni lontani: per feste di amici, per spettacoli minimi, per il piacere di toccare il mondo con parole che, se sanno di gioco, e proprio nel gioco ritrovano vivezza e perfino qualche verità.

Ma chi è Elio Pecora, secondo Elio Pecora, e non secondo gli altri? 

Una persona che per tanti anni ha lavorato e che continua a lavorare molto di più in questo tempo. Non so, ma la mia energia si è moltiplicata faccio i conti anche con tante cose iniziate in parte negli anni e che adesso riprendo. Ma è anche l’età che mi rende più attivo, perché voglio fare di più e meglio. Debbo dire che Elio Pecora è una persona che rispetto. Che rispetto ancora di più invecchiando perché sento che ha vissuto con coerenza, con dei caratteri che non erano nemmeno ben visti negli anni in cui era stato giovane, perché pareva fosse un uomo antiquato, che predicava la coerenza, la verità possibile, il rigore. Ora questo mi trova pienamente consenziente e contento di come è andata, anche per l’attenzione limitata per anni però è la parte di me di prestigio che ho intorno, perché sono inorridito del mondo che abbiamo intorno.

***

Elio Pecora è nato nel 1936 a Sant’Arsenio (Salerno), abita a Roma. Dirige il quadrimestrale internazionale “Poeti e Poesia”. Libri di poesia recenti: Simmetrie (Mondadori, 2007), La perdita e la salute (I quaderni di Orfeo, 2008), Tutto da ridere? (Empiria, 2010), Nel tempo della madre (La vita felice 2011), In margine e altro (Oedipus 2011), Dodici poesie d’amore (Frullini Edizioni, 2012, con acquerelli di Giorgio Griffa); e nelle edizioni Orecchio Acerbo L’albergo delle fiabe (illustrato da Luci Gutiérrez 2007), Un cane in viaggio (illustrato da Beppe Giacobbe 2011), Firmino e altre poesie (illustrato da Mirjana Farkas 2014). I libri di prosa: Estate (Bompiani 1981), Sandro Penna: una biografia (Frassinelli 1984, 1990, 2006), I triambuli (Pellicano 1985), La ragazza col vestito di legno e altre fiabe italiane (Frassinelli 1992), L’occhio corto (Il Girasole, 1995), Queste voci, queste stanze (libro intervista con Paolo Di Paolo, Empiria, 2009), La scrittura immaginata (Guida, 2008). Per il teatro i testi rappresentati: Alcesti (1984), Pitagora (1987), Prima di cena (1987), Nell’altra stanza (1989), Il cappello con la peonia (1990), A metà della notte (1992), Trittico (1995). Radiocommedie trasmesse: Il giardino (Radio Tre 1996), Il segreto di Lucio (RadioTre 1997). Nel 2009 una raccolta di testi teatrali Teatro (Bulzoni) e una scelta di scritti letterari La scrittura immaginata (Guida). Nel 2012 La scrittura e la vita (conversazioni con Francesca Sanvitale) per Aragno.