Due parole sulla prima di “Masterpiece”
Spesso si sottolinea come l’Italia sia un paese di scrittori e non lettori. Teoria che sembra essere confermata da “Masterpiece”, primo talent show letterario con il compito di scovare un capolavoro nascosto della narrativa italiana, fra migliaia di autori sconosciuti. Una delle prime idee prettamente italiane: format innovativo, grande attenzione dei media stranieri e perplessità di benpensanti. Ma era palese che prima o poi la televisione cogliesse l’occasione per occuparsi di uno degli ultimi settori rimasti inesplorati, come sottolineava ieri il fumettista Tito Faraci: “Anche la narrazione italiana ha bisogno di essere pop”. Fin qui tutto bene. Rivendicare la sacralità della scrittura (ma quale sacralità?), scandalizzarsi per la possibile banalizzazione delle nostre vette culturali o fare discorsi sull’arrivismo e simili, è quanto mai ingenuo e fuori luogo. È lecito dunque aspettarsi qualcosa di buono, stare piantati di fronte al televisore con la sensazione che al mero passatempo possa unirsi un interesse concreto.
La prima puntata di Masterpiece, tuttavia, mostra un’incongruenza enorme: della scrittura non frega nulla a nessuno. I tre giurati – il cattivo Andrea De Carlo, l’ironico Giancarlo De Cataldo e l’indecisa Tayie Selasi – leggono sì i manoscritti ma sembrano maggiormente interessati all’autore, la sua vita, i suoi tic. Risalgono alla genesi dell’opera e si confrontano con il caso umano di turno, perché di caso umano si tratta, sempre. Probabile conseguenza diretta o forse solo casualità, ma tutte le opere finora presentate sono autobiografiche, pienamente incentrate sull’autore e le sue sofferenze, il suo personalissimo vissuto. Con delucidazioni drammatiche che sfiorano spesso l’autoincensamento (dall’anoressica-bulimica che ce l’ha fatta da sola alla donna di fabbrica che vive un quotidiano inferno e ingoia amaro da 15 anni fino al galeotto che fa della consapevolezza la sua forza ma che scrive perché “ha visto il male”), il programma va avanti tra prove di scrittura incentrate sull’emotività e qualche altra banalità da talent ficcata nel mezzo un po’ a forza. C’è Massimo Coppola, editore Isbn Edizioni con il ruolo di coach degli aspiranti autori e la comparsa nel finale di Elisabetta Sgarbi, direttrice editoriale Bompiani, come suprema intenditrice dall’aria un po’ cattiva e un po’ schifata ma alla fine sin troppo tollerante nell’aiutare i giudici a premiare Lilith Di Rosa, 34enne che – dicono – è un incrocio tra Fante, Kerouac e Bukowski ma l’unico indizio che abbiamo per capirlo è un brevissimo frangente in cui il ragazzo legge qualche frase del suo romanzo, a dire il vero un tantino confusa, tra “piscio” e “squallore del genere umano”.
Dove sta la letteratura? Non c’è. Ci sono, almeno per ora, gli autori. Dove sta il capolavoro che, qualora si aggiudicasse il gradino più alto del podio, verrebbe stampato in 100.000 copie e distribuito dalla Bompiani? Non esiste. C’è solo qualche vaga impronta televisiva delle emozioni di chi scrive perché tormentato. Ma soprattutto, a che serve rinforzare lo stereotipo dello scrittore straziato dall’esistenza che scrive di sé quando sono i lettori (prima che gli stessi autori) a fare presente che narrare il proprio vissuto, mettersi in primo piano e da lì arrivare al senso profondo delle cose, è uno dei modi peggiori per approcciarsi alla narrativa? E non per una regoletta aurea o un dogma, ma più semplicemente perché, nella quasi totalità dei casi, non frega nulla a nessuno della tua vita e dei tuoi turbamenti. In ultima analisi, per tornare all’adagio iniziale, l’impressione è che anche qui, invece di leggere e lavorare sul fronte letterario incentrando le puntate proprio su quei “masterpieces” che danno anche il titolo al programma, si sia scritto l’ennesimo polpettone viscerale che punta a coinvolgere con le lacrime e si dimentica da cosa era partito, dalle parole. Che se non emozionano manco più quelle.